venerdì 28 gennaio 2011

Giuseppe Gagliardi, regista che racconta Tatanka

Il regista calabrese Giuseppe Gagliardi ha un film in uscita “Tatanka scatenato”, ispirato a un racconto di Roberto Saviano. È lui il sesto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento - collettivo e individuale - sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.


DANILO CHIRICO
«Il Sud è il luogo che se tutto funzionasse sarebbe un paradiso». Alla domanda su cos’è oggi il Sud, non esita neppure un attimo. Aggiunge un attimo dopo: «Il problema è il fatto che non funziona quasi nulla». Giuseppe Gagliardi ha 33 anni, è un regista e sceneggiatore calabrese. Che vive altrove, come molti suoi coetanei, come molti che hanno deciso di fare cinema («in Calabria sarebbe impossibile», precisa).
«Potenzialmente – sottolinea – al Sud ci potrebbe essere tutto». E invece «da 150 anni questo pezzo d’Italia è rimasto schiacciato da dinamiche politiche inquietanti: nel processo di unificazione c’è stata la volontà storica di ridurlo così, la volontà precisa di trasformarlo in un luogo in cui tutto va in malora. Nella periferia dell’impero». Una realtà «che fa male, ma che è così». Che va spiegata, «raccontata», dice. E il riferimento non può che essere al fortunatissimo libro di Pino Aprile, “Terroni”.
Non tutto dipende dagli altri, però. Anche i meridionali, i calabresi devono fare la propria parte. Da questo punto di vista Giuseppe Gagliardi introduce una punta di ottimismo attraverso un elemento generazionale: «C’è un dato interessante in Calabria nell’ultimo periodo: un dato anagrafico. Ha preso il potere un gruppo di quarantenni, finalmente una generazione che sa cos’è una email, Skype o un motore di ricerca». Gagliardi si riferisce al nuovo presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti (classe ’66) e ai suoi più stretti collaboratori (peraltro da lui indicati, la vicepresidente Antonella Stasi, anche lei del ’66, l’assessore al Bilancio Giacomo Mancini che ha 37 anni). Una cosa significativa, per il regista cosentino, che naturalmente dovrà «essere supportata dai fatti sui quali dare il nostro giudizio politico».
È importante, fondamentale il ruolo della classe dirigente di un territorio, la capacità di cogliere i cambiamenti, di capire i processi, di instaurare un rapporto chiaro e utile con i cittadini. Per spiegarlo il regista ricorre a un’esperienza personale: Saracinema. È un festival cinematografico pensato e organizzato da Gagliardi per Saracena, un incantevole borgo (a rischio abbandono) che sta in provincia di Cosenza, a metà strada tra il Pollino e il mar Tirreno. È il 2006 quando nasce questa esperienza, che ha almeno due importanti caratteristiche: la prima è che il cinema sta dentro il paese, lo attraversa, lo trasforma in una grande sala, in una grande casa di produzione, in una grande platea, in un luogo pieno di osterie, suoni e immagini. L’altra è che il festival offre a trenta giovani (calabresi e non) l’occasione di incontrare faccia a faccia registi, autori e produttori altrimenti difficili da incrociare. Un’idea affascinante e concreta. Una buona pratica, soprattutto per un territorio che ancora non ha un vero festival del cinema. «In tre anni Saracinema era cresciuto, era diventato una bella realtà – sottolinea - Poi ci siamo scontrati con la realtà, con la politica che ha deciso di non seguirlo più, di non sostenerlo. E dopo alcuni anni di grandi sacrifici siamo stati costretti a lasciare stare». Occasione mancata, l’ennesima per la Calabria. Una situazione paradigmatica per la regione in punta allo Stivale che probabilmente è alla base di uno degli elementi più tristi: «l’esodo continuo, da oltre 50 anni, di tutti i cervelli più interessanti della regione. Costretti ad andare via, e che trovano le loro occasioni migliori lontano da casa». Attacca Giuseppe Gagliardi: «È questo il risultato di un sistema fatto di assistenzialismo e clientelismo». E invece no, invece «i cittadini devono avere l’opportunità di realizzare i loro progetti. Se questo accade, possono succedere cose interessanti».
Gagliardi è un calabrese che fa cinema, ma non fa cinema in Calabria. «Fino a oggi non è stato possibile realizzare un film, anche se mi piacerebbe molto», sottolinea. Così un regista che viene premiato al festival di Nanni Moretti con il Sacher d’argento (nel 2003 con il corto Peperoni), che riceve un premio al Torino Film Festival (con il documentario musicale Doichlanda, ancora nel 2003), che con il suo primo lungometraggio “La vera storia di Tony Vilar” partecipa a festival come quello di Roma (nel 2006) e il prestigiosissimo Tribeca di New York (nel 2007) alla fine si trova a constatare che «continua a valere il detto “nemo propheta in patria”», che il cinema per la Calabria è un poco più di un ufo. Eppure la storia di Tony Vilar, l’emigrante calabrese Antonio Ragusa partito nel 1952 alla volta dell’Argentina e diventano famoso in tutto il mondo con il brano “Quanto calienta el sol”, era un film «legato alla riscoperta di una certa calabresità, una certa italianità tra Buenos Aires e New York». Anche questo progetto «non ha mai avuto un sostegno reale», commenta.
Quello che non si capisce in Calabria, secondo Gagliardi, è che anche «la cultura è un’industria»: il prodotto artistico e culturale «va inteso come qualcosa da mettere a disposizione per fare crescere il territorio». Altre regioni lo hanno capito: «In tutti i posti è difficile fare il cinema, ma alcune cose interessanti altrove cominciano a muoversi», dalla Puglia fino alla Basilicata.
La verità è che «dove una cosa funziona, per riflesso funzionano anche le altre», chiarisce. E spiega: «Se in Salento funziona il turismo, anche il resto va bene. Ora – aggiunge - spero che in Calabria la nuova film commission faccia delle cose buone e utili al cinema e al territorio». È un problema di scelte politiche e imprenditoriali, «è un problema di spazi, di luoghi, di opportunità dove poter esprimere e fare crescere le creatività». Se ci fossero gli spazi, insiste, «centinaia di ragazzi avrebbero la possibilità di fare il cinema. Ci dovrebbe essere un supporto concreto, almeno nella diffusione».
Probabilmente è proprio per questa serie di ragioni che la Calabria «è raccontata poco e male – aggiunge il regista - mi pare che sia l’unica regione, insieme al Molise, che non ha nessun tipo di letteratura scritta, visiva o cantata. Forse è dovuto anche al fatto che in Calabria c’è una sorta di esterofilia che non riesce ad apprezzare quello che ha». Ma c’è di più, e ritorna il ruolo della classe dirigente: «Ogni anno ci sono 25mila premi organizzati a beneficio dei calabresi nel mondo o robe di questo tipo, che servono a organizzare serate per politici e vescovi e a nient’altro», attacca. Nessuna programmazione, nessuna idea. «Invece – rimarca - con gli stessi soldi si potrebbero fare cose molto concrete per far crescere professionalità artistiche e culturali». Ecco perché «purtroppo non c’è uno scrittore di riferimento che non sia defunto, non c’è un cinema preciso, non c’è una band». Un esempio? «Peppe Voltarelli ha vinto il premio Tenco come miglior album in dialetto. Chi lo sa in Calabria? chi vuole valorizzare questa esperienza?».
È anche per questo che Gagliardi ha deciso di girare il suo nuovo film in Campania, a partire da un racconto scritto da Roberto Saviano. Il film si intitola “Tatanka scatenato”, racconta – senza stereotipi - una storia di un riscatto di un gruppo di giovani di Marcianise, in provincia di Caserta. Un gruppo di giovani uniti dal sangue e dal sudore del pugilato, che hanno nel vicecampione olimpico Clemente Russo il loro rappresentante più famoso. «È stata un’esperienza molto forte, interessante – racconta Gagliardi - Un film , girato tra la Campania e Berlino che ha un tono neorealista, girato con molte parti in dialetto, con buona parte degli attori presi dalla strada. È stato interessante conoscere e sviscerare le dinamiche sociali del Sud». L’uscita in sala è prevista per marzo, con 200 copie. Un ottimo numero. «Siamo molto contenti perché sono numeri significativi rispetto a quello che accade in questo momento nel cinema italiano». Una grande opportunità. «Abbiamo fatto una proiezione privata con Roberto Saviano: il film gli è molto piaciuto, spero che ci dia una mano a promuoverlo». L’occasione di fare il salto di qualità, magari in attesa di fare un film in Calabria «perché bisogna parlare di quello che si sa». Nel frattempo, con determinazione, continuare il proprio percorso. Da calabrese che fa cinema: «La cosa bella è che il bagaglio culturale, di ironia, di apertura sono cose che ti porti dietro. Sempre, che puoi esprimerlo nelle tue cose». Dovunque tu sia.

martedì 18 gennaio 2011

Il fotoreporter Luciano Ferrara

Il fotoreporter napoletano Luciano Ferrara è il quinto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento - collettivo e individuale - sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.

DANILO CHIRICO
«Terra di sperimentazione e sofferenza». È una definizione bella, suggestiva e convincente quella che Luciano Ferrara usa per descrivere il Sud del nostro Paese. Terra capace di grandi innovazioni, spesso costretta a pagare un prezzo alto, «come nel caso dell’Unità d’Italia che stiamo festeggiando proprio in questi mesi», precisa subito. «Il Mezzogiorno ha dato un grande contributo all’Unità – spiega – e anche al Nord. Non vorrei dimenticare che i “nordisti” oltre alle braccia meridionali si sono portati a casa le casse piene di denari. Se non lo diciamo, non capiamo in che Paese viviamo».
Luciano Ferrara è un fotoreporter napoletano di fama internazionale. Che sta da sempre tra la gente, dentro la società, dentro le trasformazioni sociali e culturali. Ha attraversato il movimento operaio e quello per la pace di Comiso, ha immortalato la guerra del Golfo e le bombe in Libano, ha scoperto il movimento dei disoccupati napoletani e raccolto il volto dei “femminielli”, ha raccontato come pochi Napoli e la Campania. Ha uno sguardo personale, originale sui fenomeni meridionali. Utile a cogliere l’essenza dei cambiamenti. «Innanzitutto bisogna dividere la parte politica dalla parte sociale», premette. E spiega: «In politica, a parte piccole cose in Puglia, non ci sono grosse novità in questo momento». Ben diverso il discorso nei movimenti sociali, «che sono vivi, fatti di giovani e che sanno fare proposte». Che si scontrano con un limite: «Non riescono a stare in rete tra loro e soprattutto a trovare un collegamento con il resto dell’Italia». Che non hanno memoria di ciò che è stato: «La mia generazione, quella degli anni Settanta – chiarisce – ha sperimentato molte cose di cui oggi purtroppo non è rimasta traccia». Colpa di chi dimentica, colpa anche «delle istituzioni che hanno completamente cancellato questo protagonismo». Luciano Ferrara denuncia cioè la distruzione «del laboratorio stradale». Napoli «è la città del teatro, della musica, di molte altre cose – sottolinea – e questo è accaduto perché in quello che io chiamo il laboratorio stradale, nei sotterranei, nel retroterra c’era una sperimentazione forte, c’era lo spazio per fare crescere le sensibilità». Le istituzioni hanno cancellato tutto, secondo Ferrara. «La colpa della politica, anche di quella di centrosinistra, è stata puntare tutto sui grandi eventi e non fare crescere quello che si muoveva dentro Napoli», sotto Napoli. La vera ricchezza culturale di una città straordinaria. L’avvento della destra alla Regione ha fatto il resto: «Hanno fatto un taglio drastico sulla cultura». C’è stato immediatamente un cambio al vertice al teatro Mercadante e «un museo importantissimo a livello mondiale come il Madre ha avuto una riduzione del budget a un milione e mezzo di euro. Pochissimo. Un vero e proprio attacco alla cultura dovuto soltanto alla necessità di liberarsi di 15 anni di potere di Bassolino. Senza alcun progetto». Lo dimostra anche il caso del teatro Trianon diretto da Nino d’Angelo, oggi incomprensibilmente chiuso.
C’è la possibilità di invertire la rotta. Una possibilità gigantesca che si chiama Forum internazionale delle culture, un grande evento che dopo Barcellona arriverà a Napoli nel 2013: «È una grande occasione – sottolinea Ferrara – arriveranno milioni e milioni di euro, venti milioni di visitatori. C’è la possibilità di cambiare il volto della città». Ma la domanda «che ci dobbiamo porre è: che cosa vogliamo mostrare? Qual è l’indirizzo culturale?». Una proposta Ferrara, insieme a un gruppo di fotografi, l’ha fatta: «Lavorare sulla memoria storica del nostro territorio con una grande mostra fotografica che racconti Napoli dal 1900 a oggi, per mostrare i cambiamenti della società, dell’economia e così creare un grande archivio storico». Una traccia significativa dei mutamenti sociali negli ultimi decenni sta già nell’archivio di Ferrara. Che nota differenze sostanziali tra ieri e oggi: «Ho sempre usato la fotografia in senso culturale e politico – dice – e oggi avverto prima di tutto è il disincanto, la disillusione, il disinteresse nei confronti della politica militante. La partecipazione attiva è azzerata – insiste il fotografo – e i pochi che si impegnano sono considerati un fastidio. Un’idea triste che s’è andata affermando in un processo che è iniziato da vent’anni e che ha certamente tra i responsabili la televisione e il mondo dell’informazione».
Non è un pessimista Luciano Ferrara: «Non tutto è perso – riprende il suo ragionamento – al Sud c’è un grande fermento e bisogna ripartire presto. Dalle piccole cose, dalle istanze delle minoranze, dai bisogni». Ovviamente facendo conti con i cambiamenti per «capire quali sono i nuovi bisogni e indagare il modo migliore per affrontarli ».
C’è poi un'altra grande questione: il racconto del Sud di oggi. «La grande stampa usa il suo format, racconta la sua storia – accusa – mentre chi indaga davvero sul territorio spesso ha soltanto internet». Conta certamente, in questa analisi, «l’indirizzo assunto dall’industria culturale e gli assetti proprietari, contano i mezzi a disposizione, ma forse conta anche che è cambiato l’approccio degli artisti, degli intellettuali che fino agli anni Ottanta hanno raccontato bene il Sud e che adesso invece segnano il passo». Fa un esempio: «A teatro dopo Mario Martone e il suo Tango glaciale del 1982 che cosa c’è stato?». Non vuole mancare di rispetto a nessuno, sottolinea Ferrara. Semplicemente gli preme dire che «oggi siamo un po’ fermi». Mancano le idee, gli intellettuali («che hanno il compito di promuovere cose nuove», precisa) sono silenti «ed è cambiato anche lo spirito: una volta pur di fare un lavoro ci si impegnava le auto. Adesso questa cosa non la farebbe più nessuno». C’è anche un ruolo negativo svolto dalla politica, che costringe «i migliori a partire» e spesso chi va via non mantiene «un filo politico e culturale con il territorio di provenienza». Il risultato è che oggi «si fa cultura davvero a Londra o a Berlino: è lì che si racconta non qui». Questa idea del racconto, questo spirito dell’innovazione, la sperimentazione nel «laboratorio stradale». Tutto questo manca. Una mano può darla il Forum della cultura del 2013, l’altra bisogna darsela da soli. Ferrara ha aperto il suo studio fotografico alla nuova generazione di fotografi napoletani. «Credo sia giusto mettere a disposizione la mia esperienza. Per far imparare il mestiere, certo. Ma anche per insegnare a campare con la fotografia. Che altrimenti fare belle foto non serve a niente». Commenta soddisfatto: «I frutti che stiamo raccogliendo sono davvero buoni». Concreta arte partenopea.

danilochirico@dasud.it

BOX MUSEO MADRE
«La verità di Napoli è destinata per ragioni addirittura antropologiche ad apparire come qualcosa di straordinario, nel bene e nel male. E la fotografia sembra in grado di registrare meglio e più di altri linguaggi creativi ciò che tutti i visitatori sanno per esperienza, e cioè che in questa città accade molto spesso il miracolo di incontrare una realtà che, se arriva alla verità, è sempre per eccesso». Si presenta con questo incipit la mostra “‘O vero”, una collettiva di venti fotografi napoletani allestita al museo Madre di Napoli (www.museomadre.it) a cui partecipa anche il fotoreporter Luciano Ferrara. Racconta: «È la prima volta che una mostra fotografica entra in questo museo – sottolinea – siamo molto felici di esserci. E di raccontare con le immagini le trasformazioni di Napoli». Un grande risultato: «Va detta una cosa però: la fotografia purtroppo è quella che svela i problemi. Ci hanno chiamati – insiste – solo quando non c’erano più soldi. È giusto esserci, sostenere il progetto e dare il proprio contributo. Ma la fotografia va rispettata di più».


Ulderico Pesce e i nuovi briganti

È l’attore e autore teatrale lucano Ulderico Pesce il quarto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento - collettivo e individuale - sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.


di DANILO CHIRICO

Ha lavorato con Giorgio Albertazzi e Carmelo Bene, Luca Ronconi e Gabriele Lavia. Ne va fiero. Poi ha scelto la sua strada, quella che gli aveva indicato suo nonno che di che di mestiere faceva l’arrotino e che raccontava con un talento naturale le cose del passato. Storie vere, difficili, che lo riempivano. Quando è partito per Roma per studiare, alle pareti della sua stanza nel quartiere San Lorenzo ha appeso la foto di suo nonno. Come monito, forse. Come modello, ispirazione. È per questo che ha scelto di stare sul palcoscenico per raccontare la realtà. Di lavoratori sfruttati, di operai senza diritti, di cittadini che si ammalano. La realtà del nostro Paese, del nostro Mezzogiorno.
Ulderico Pesce è nato e vive in Basilicata. È un uomo di teatro – autore, attore e regista – che, per dirla con il grande critico del Corsera Franco Cordelli, recita come se stesse «seduto a un tavolo con ciascun spettatore». Uno che quando gli parli ti guarda negli occhi, racconta, si infervora, spiega e maledice. E non ha peli sulla lingua, nella vita come negli spettacoli. Così quando gli chiedi di partecipare al ragionamento del Domenicale di Terra sulle nuove creatività e identità meridionali, lui accetta volentieri. E dice subito: «Parlo anche da semplice cittadino». E dice subito: «Il Sud oggi è esattamente come quello di fine Ottocento: nulla è cambiato nel rapporto tra territorio, cittadini e Stato». Il paragone suona forte, ma l’attore lucano aggiunge subito: «Eravamo colonizzati dai Savoia nel 1861 e lo siamo oggi. Allora – sottolinea – lo Stato approfittò delle risorse energetiche, agricole e naturalistiche del nostro Sud lasciando la popolazione e interi pezzi di territorio sprovvisti di Stato, di quell’elemento terzo capace di assicurare giustizia e dignità, equità e diritti ai cittadini. Oggi non è diverso: lo Stato non c’è». Non si ferma qui il ragionamento di Ulderico Pesce. «Ho vissuto tutto questo sulla mia pelle – racconta – sono felice di avere una madre che è stata una bracciante agricola, ma mia madre avrebbe voluto studiare e non ha potuto. Questa è l’impronta di un’ingiustizia che hanno vissuto in tanti nel nostro territorio – insiste - e che la politica, che ha reso legale l’illegalità, non fa nulla per cambiare. Vale per la destra e per la sinistra in egual misura». Torna all’idea dello sfruttamento del Nord nei confronti del Sud, dell’abbandono dello Stato. E fa due esempi («mi piace parlare di cose concrete», dice). Il primo riguarda il Ponte sullo Stretto: «Noi meridionali non ne sentiamo il bisogno, non lo vogliamo, la nostra stessa cultura è contraria – sostiene – eppure il nostro ambiente e territorio vengono sacrificati per regalare un grosso affare a una grande impresa del Nord». E poi la Basilicata: «Bossi parla sempre di federalismo – dice – e allora parliamone con i fatti. Il nostro territorio ospita tre grandi multinazionali: l’Eni in Val d’Agri, dove estrae il 60% del fabbisogno nazionale di petrolio, la Coca Cola nel Volture, dove usa la nostra acqua, e la Fiat a Melfi». Bene, secondo Pesce, sono «tre grandi realtà che colonizzano il territorio e lo deturpano lasciando la fame alla Basilicata». Tanto che ogni anno a causa dell’emigrazione è come se sparisse «un paese di 15mila abitanti». E i lavoratori continuano a restare «senza diritti»: «Alla Fiat – attacca – ancora oggi non c’è il medico dopo le 18, come avviene in tutte le fabbriche d’Europa» e infatti «lo scorso aprile un operaio è morto per un semplice principio di infarto». Un prezzo che la Basilicata paga, senza avere nulla in cambio: «Queste tre grandi aziende le tasse le pagano altrove: parliamo di questo quando parliamo di federalismo fiscale».
La risposta a tutto questo sta nel brigantaggio, dice Ulderico Pesce. «Sono fiero di essere nato in Basilicata, il posto in cui il fenomeno è stato più forte», rivendica. «La risposta sta in una nuova forma di brigantaggio – sottolinea – quello dei movimenti che qui al Sud sono vivi e difendono il territorio e chiedono diritti. Movimenti che devono essere autonomi dalla politica – insiste – ma che devono organizzarsi e darsi una forma per cambiarla, contaminarla», per entrarci insomma con le proprie parole d’ordine. «I movimenti sui territori devono diventare forza politica – rimarca l’attore lucano – senza leaderismi, ma senza perdere altro tempo prezioso: in questo Paese la gente perbene sta all’opposizione e deve potersi esprimere». I riferimenti vanno trovati nella letteratura e nella poesia. Rocco Scotellaro, innanzitutto. «Un poeta contadino – lo ricorda Ulderico Pesce che sul suo lavoro e della poetessa Amelia Rosselli ha anche costruito uno splendido spettacolo “Contadini del Sud” – un sindaco, un occupatore delle terre. Diciamo che è stato un politico con un’impostazione poetica e un poeta con una coscienza politica: un vero punto di riferimento». E poi Corrado Alvaro, «il Pirandello delle novelle dei primi del secolo di Ciaula scopre la luna», il poeta suicida Franco Costabile «che amo molto e che ho sentito citare ai ragazzi del movimento ambientalista di Amantea». Prova a tenere insieme tutto questo mondo Ulderico Pesce con il suo lavoro, nella scrittura e nella scena. Lo spiega in maniera appassionata: «Ho scelto di fare questo teatro per due ragioni: una artistica e una psicologica». La prima «riguarda i miei studi». Un giorno al teatro Ateneo della Sapienza a Roma Ulderico Pesce incontra Anatoli Vassilev che lo porta a Mosca. Si ferma lì più di tre anni a studiare e praticare «un teatro semplice, povero, strutturato sulla verità e sulla necessità delle emozioni», a lavorare sul Metodo Stanislavskij «secondo il quale un attore deve essere sempre vero, credibile. Tutto il contrario della tradizione artificiosa del teatro italiano». Così tra il teatro italiano «e mio nonno che faceva l’arrotino, ho scelto mio nonno e i suoi racconti. Prima li ho portati in giro in Basilicata – racconta – poi ho capito che interessavano anche a Roma o a Milano». Così ha trovato il suo linguaggio Ulderico Pesce. Poi la ragione psicologica: l’ingiustizia di vivere al sud, «rabbia e la voglia di riscatto che mi sentivo dentro». E poco importa se stare al Sud e fare il suo lavoro è più difficile: «Ho fatto le cose per istinto e non per calcolo – dice – So bene che è molto più complicato, che ci sono poche strutture in mano sempre alle stesse persone». Eppure, rimarca, «sono felice di essere radicato al sud, di fare qui i miei laboratori e avere qui il mio archivio». Insomma, «al sud c’è più humus per il mio lavoro, più anima, più materia emotiva per la scrittura – confessa Pesce – e poi qui il mio lavoro ha più senso». Si spiega così: «Al nord non si può salire sugli alberi perché ti prendono per matto. Io qui appena posso ci salgo, e mi sento parte di questo mondo». Eccola l’anima del Sud, «la forma mentale di essere Sud», secondo Ulderico Pesce. E allora «io voglio rendere un po’ più Sud anche il Centro e il Nord».

danilochirico@dasud.it

Terra, 9 gennaio 2011

BOX

È il novembre del 1878 quando Giovanni Passannante, giovane cuoco della Basilicata, vende la propria giacca per otto soldi per comprare un coltello. Vuole uccidere il Re d’Italia, Umberto I. Non ci riesce, gli procura solo qualche graffio. Viene però condannato a morte, poi graziato e spedito in una cella del carcere dell’isola d’Elba che sta sotto il livello del mare: qui si ammala e inizia persino a mangiare i suoi escrementi. Viene poi mandato a finire i suoi giorni in un manicomio criminale. Muore nel 1910. Gli viene negata la sepoltura e il suo cranio viene esposto nel Museo Criminologico di Roma.
Da allora Passannante finisce nel dimenticatoio, fino a quando Ulderico Pesce non si mette in testa di avviare battersi per dargli una degna sepoltura. Vince: nel 2007 i resti di Giovanni Passannante vengono portati e sepolti a Salvia di Lucania, il suo paese d’origine. Un paese che nel frattempo ha cambiato nome e ancora oggi si chiama “Savoia di Lucania”.
Questa incredibile storia Ulderico Pesce l’ha raccontata in un fortunatissimo spettacolo (che ha girato importanti festival in tutto il mondo) dal titolo “L’innaffiatore del cervello di Passannante: l’anarchivo che cercò di uccidere Umberto I di Savoia”. E oggi è diventata un film, “Passannante”, per la regia di Sergio Colabona, nel quale insieme a Ulderico Pesce recitano il cantante dei Tetes de Bois Andrea Satta, Bebo Storti, Roberto Citran e molti altri artisti. Il film è stato selezionato per il Bari International Film e Tv Festival diretto da Ettore Scola e Felice Laudadio (22 - 29 gennaio) che sarà presentato domani (10 gennaio) alla Casa del cinema di Roma.

lunedì 17 gennaio 2011

Mammasantissima, ascolta la prima puntata

Ascolta qui (in podcast, dal sito di Radio Popolare Roma) prima puntata di Mammasantissima, la trasmissione antimafia di Danilo Chirico in onda ogni domenica su Radio Popolare Roma.


Un ricordo di Libero Grassi, a vent'anni dalla pubblicazione della sua lettera "Caro estortore" sul Giornale di Sicilia con cui dichiarava la sua guerra ai clan, un'intervista al presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello per ragionare di mafia, politica e imprenditoria, l'esempio antimafia dell'educatore pacifista Danilo Dolce. E la rassegna stampa con le storie di mafia e antimafia della settimana.