lunedì 27 dicembre 2010

I calabresi vogliono essere parlati

L'ex sindaco anti-'ndrangheta di Rosarno Peppino Lavorato ha scritto un commento bellissimo, di cui vado fiero, sul libro "Dimenticati". Lo ha pubblicato il Quotidiano della Calabria.
Eccolo 

di Giuseppe Lavorato*

Da alcune settimane è nelle librerie italiane ‘’Dimenticati, vittime della ‘ndrangheta. La storia e le storie delle donne e degli uomini assassinati dall’organizzazione criminale più segreta e più potente del mondo’’, ultimo libro Danilo Chirico ed Alessio Magro, due giovani intellettuali calabresi che si cimentano con i problemi della loro e nostra terra con passione civile e serietà. Ne danno prova già nell’introduzione, quando scrivono «Cinque anni fa abbiamo iniziato un viaggio a ritroso nella memoria dispersa, occultata e negata di un pezzo d’Italia.  Avevamo bisogno - innanzi tutto per noi stessi - di colmare buchi impressionanti. Abbiamo letto e riletto atti processuali, decifrato verbali scritti a mano, riaperto libri obsoleti e sfogliato ingiallite pagine di giornali e riviste, guardato vecchie foto ed immagini rovinate. Soprattutto abbiamo incontrato centinaia di persone. Straordinarie. Le abbiamo ascoltate. Abbiamo sentito dal vivo della loro voce quello che è stato. Parole pronunciate con orgoglio e vigore o strette tra i denti e sussurrate. È un’emozione che non si può dire, spiegare.  Poi è stato il momento del racconto».

Sono parole che si incastonano perfettamente con quelle di Francesco Cascini, magistrato ragazzino di prima nomina nel 1996 a Locri che, nel libro “Storia di un giudice, nel far west della ‘ndrangheta’’, scrive: «Sembrava impossibile che tutto potesse nascere dalle case arrampicate sull’Aspromonte di Africo vecchio, dai cunicoli di Platì, dal silenzio di San Luca, dagli ovili abusivi dei capi più carismatici. Eppure era così. Nella Locride la situazione resta difficile, anche solo da capire, senza aver respirato l’aria di posti come Africo, San Luca. Le persone che ci vivono, la loro cultura, la loro mentalità rappresentano un altro mondo, di fatto incomprensibile a chi non è nato e cresciuto lì».
Pensieri, quelli di Chirico, Magro e Cascini, che ricordano quelli di Corrado Alvaro: “I Calabresi vogliono essere parlati”.  Ciò che è vero per tutti i popoli del mondo, è vero anche per i Calabresi. Per comprenderli e descriverli devi immergerti tra di loro e parlare con loro, invece molto spesso sono raccontati da persone che non li hanno conosciuti oppure sono passati tra di loro, rapidamente, a volo di uccello. Sono tanti i grandi inviati che arrivati in Calabria hanno firmato pezzi superficiali e spocchiosi o hanno usato i microfoni  della televisione come clave con l’unico obiettivo di costruire l’ennesimo caso di omertà, l’ennesima macchietta da schernire. In questo compito sono facilitati da soggetti che, per apparire difensori delle proprie comunità ed ottenere qualche meschino voto in più, negano, minimizzano, giustificano quanto, invece deve essere denunciato con vigore e fermezza. Com’è avvenuto, a gennaio, dopo la spietata e infame caccia al nero e la deportazione dei neri africani che si sono ribellati all’estorsione sulla loro miserrima paga ed alle violenze subite. Mentre chi vuole veramente bene alla propria terra e vuole mantenerne integri e credibili i valori che la nutrono, si misura  sui problemi e sui mali che l’affliggono con  il linguaggio della verità nuda e cruda, perché così agisce il medico che vuole  guarire l’ammalato. Rifugge dalle parole consolatrici e soprattutto dalle parole e dai comportamenti  che piacciono alla ‘ndrangheta. Denuncia, senza indulgenza, i mali, per poi assegnare la  legittima luce ai comportamenti nobili che sono presenti e vivi in tanta parte delle nostre comunità. La ‘ndrangheta ha raggiunto l’attuale potenza anche perché è stato un fenomeno poco conosciuto fino a qualche decennio addietro, oscurato dalla più appariscente “cosa nostra” siciliana, dalla camorra napoletana e dalla disattenzione dei mass media. Numerose inchieste giudiziarie hanno disvelato la sua crescita vertiginosa  nell’ultimo quarantennio e su di esse si è sviluppata una copiosa letteratura che ne ha divulgato la conoscenza. Diffondere le relazioni della magistratura e degli organi inquirenti, che costituiscono fonti di altissima qualità, è certamente indispensabile per conoscere il fenomeno. Ma la letteratura non può fermarsi ad esse. Deve aiutare ad una comprensione maggiore del fenomeno congiungendo all’indagine giudiziaria un lavoro ed una riflessione che avvenga dentro il corpo vivo delle comunità afflitte dal fenomeno. È il lavoro compiuto da Danilo ed Alessio, nelle 500 pagine del loro racconto che si immerge dentro i problemi drammatici che affliggono il nostro popolo, li vive, li soffre  e li descrive con rigore intellettuale e morale. I capitoli del libro raccontano la brutalità sanguinaria della ’ndrangheta in tutte le sue attività criminali. Sembrano le tappe della sofferenza inflitta al popolo onesto e laborioso, in un accostamento ideale all’iniziativa annuale di un Pastore della chiesa locridea di celebrare la Via Crucis con soste di riflessione e di preghiera nei luoghi simbolo della violenza e del dolore.

Le numerose vittime dell’Anonima sequestri calabrese, così come le morti collegate ai rapimenti: testimoni scomodi, mediatori sgraditi,vittime inconsapevoli e cittadini in cerca di giustizia. La cosiddetta strategia della linea dura che vieta il pagamento dei riscatti, mentre un’altra trattativa impegna apparati sommersi delle istituzioni. E poi il capitolo dei Fatti di crudeltà inaudita, che nel nome dell’onore violato, del disonore, portano a morte violenta ed efferata donne, sorelle bambini, adulteri e spasimanti colpevoli di amare la persona sbagliata”. Delitti compiuti per riaffermare il “prestigio di casta, quello degli ‘ndranghetisti” al solo fine di poter continuare a fare parte quelle organizzazioni criminali  che si arricchiscono con la violenza ed il malaffare. L’assassinio di umili lavoratori per lanciare il segnale che anche in Calabria, come in Campania, gli affari miliardari dei rifiuti appartengono alle cosche. Ma, assieme alla Calabria peggiore, quella della ferocia inaudita, dei faccendieri ed insospettabili, di parti degenerate della politica e delle istituzioni che hanno contribuito a allargare l’area collusa e grigia e a ingrossare l’accumulazione originaria dei capitali necessari a introdurre la ‘ndrangheta dei pastori e dei guardiani nel mondo dei grandi traffici illeciti, Danilo Chirico ed Alessio Magro raccontano la Calabria migliore, perché sanno che non arriverà nessun angelo liberatore e che i calabresi dovranno liberarsi da soli dall’oppressione della ‘ndrangheta. Per questo le molteplici, spietate ed infami forme che la violenza assume sono raccontate assieme al dolore vigliaccamente inflitto ad inermi ed oneste persone. E tra quest’ultime, il racconto illumina quelle che alla ‘ndrangheta si sono opposte, per indicarle ad esempio.  Nelle belle ed amare pagine del libro ritornano in vita le storie di calabresi, che hanno onorato la loro terra: sono donne meravigliose; uomini in divisa, magistrati, politici, imprenditori, cittadini. La penna descrive la Calabria vera ed intera. La crescita vertiginosa di una organizzazione criminale che dopo aver conquistato un grande potere militare, economico, politico, ricerca anche la legittimazione sociale, tentando di impregnare di se anche attività sportive, ricreative, pseudo culturali, religiose.

E racconta anche la Calabria di chi si oppone, resiste, combatte, lavora per risvegliare all’impegno civile tutte le persone oneste e laboriose, che sono largamente maggioritarie.  Perché se non si da voce anche a quest’altra Calabria la battaglia diventa ancora più difficile di quanto già lo sia. E ad essa appartiene anche quel canto-poesia che tocca i sentimenti umani più profondi: “Ma comu si faci ‘nta Calabria i si spara ancora, ma comu si faci ‘nta Calabria i si ammazza ancora, ndavimu u suli ndavimu u mari e sogni d’amuri, ma comu si faci ‘nta Calabria i si ammazza ancora!  Sono alcuni versi della poesia “Ma comu si faci” , ma come si fa a uccidere ancora in una terra che è un paradiso , coi fiori che nascono anche d’inverno, il mare, il sole, composta e cantata dal gruppo punk degli “Invece”, nome scelto da giovani artisti per testimoniare che c’è sempre un’alternativa allo stato di cose presenti. Versi scritti sul finire del secolo scorso da giovani che hanno provato sulla loro pelle  la disoccupazione, l’emigrazione, l’essere chiamati e trattati come gli africani (Ndi ndi jamu ndi ndi jamu, si ma aundi jamu, ndi ndi jamu ndi ndi jamu, comu i profughi fuimu). Versi che richiamano il più importante problema del nostro tempo (l’esodo biblico dei poveri del mondo) e fatti dolorosi di stringente attualità. Versi che, omaggiando il nostro grande scrittore, scrivono e cantano “Non è bella la vita degli africani in giro per il mondo trattati come cani e allora e allora ribellione’’.

Dopo “Il sangue dei giusti’’, “Il caso Valarioti’’, il dossier sulla legittima rivolta degli africani neri e l’infame rappresaglia compiuta contro di loro descritte in “Arance insanguinate”, l’associazione Stopndrangheta.it e molti scritti politico-sociali, “Dimenticati’’ è , in ordine di tempo, l’ultima opera delle tantissime che certamente Danilo Chirico ed Alessio Magro comporranno a beneficio della conoscenza e dell’impegno di quanti vogliono essere protagonisti del riscatto del Mezzogiorno e dell’Italia.

Nota: tutte le frasi in corsivo sono tratte dal libro e sono, quindi, frutto dell’intelligente lavoro degli autori.

*ex deputato e sindaco di Rosarno

(21 dicembre 2010, pubblicato sul Quotidiano della Calabria il 24 dicembre 2010)

martedì 21 dicembre 2010

1980-2010, fatti della storia d'Italia (che parlano all'oggi)/5

In Campania nel 1980 cadono Marcello Torre e Mimmo Beneventano.



Uccisi per l’impegno politico. E la scelta rigorosa di difendere il territorio, la trasparenza amministrativa, la dignità di un popolo. Sono Mimmo Beneventano e Marcello Torre, che la camorra ha voluto morti nel 1980. Due morti che dopo 30 anni richiamano al sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, ucciso quest’anno.
Mimmo Beneventano è un medico con la passione per la poesia, «il medico dei poveri, che ha la porta sempre aperta», spiega Raffaele Sardo il giornalista che delle vittime della camorra ha dedicato il libro “Al di là della notte” (Pironti editore). Mimmo vive a Ottaviano, il paese del boss Raffaele Cutolo, e compie la scelta scomoda di impegnarsi nel sociale e di fare politica nel Pci. Diventa consigliere comunale nel 1975, viene riconfermato nel 1980. Lo ammazzano a 32 anni, la mattina del 7 novembre. È presto, Mimmo esce di casa per andare a lavoro. Lo freddano mentre sale a bordo dell’auto, davanti agli occhi increduli di sua madre Dora che vede tutto dalla finestra. I colpevoli del suo omicidio sono rimasti tra i segreti della Nuova camorra organizzata di Cutolo. Che non esiste più. Di certo, paga il suo impegno contro le speculazioni edilizie e gli appetiti dei clan in un territorio che si appresta a entrare nel parco nazionale del Vesuvio, paga la sua popolarità. Troppo per una camorra che nella gestione del consenso sociale ha una parte importante della forza. Dopo poche settimane, il 23 novembre, c’è il terremoto in Irpinia: una tragedia con migliaia di morti e intere città distrutte. L’affare del secolo per la camorra, che non può certo accettare resistenze. Per questo viene eliminato Marcello Torre, sindaco dc di Pagani (Salerno). «Gli propongono di entrare nel patto tra camorra e politica – spiega Sardo – per gestire la partita del terremoto. Lui non ci sta». È la miccia di una bomba innescata da tempo. Torre è un politico di razza (è stato consigliere provinciale) e viene minacciato già prima di diventare sindaco tanto da scrivere una eloquente lettera-testamento: «Temo per la mia vita. [...] Torno alla lotta soltanto per un nuovo progetto di vita… Sogno una Pagani civile e libera». Troppo libera. Lo uccidono a 48 anni, l’11 dicembre. Il mandante è Raffaele Cutolo.

«Va ancora scritta questa pagina di storia della Campania – osserva Sardo – questi due importanti omicidi per molti anni sono stati sottovalutati: per la debolezza della società civile e della politica, perché la camorra veniva letta solo in chiave strettamente criminale». Un errore. Subito dopo quegli omicidi, «il modello Cutolo, dell’uomo solo al comando non regge più e gli scontri tra i clan si acuiscono» e nel 1984 scoppia la guerra con la Nuova famiglia, il cartello degli Alfieri e i Nuvoletta. «Si afferma un nuovo modello con un rapporto sostanziale con la politica», sottolinea Sardo. Sono gli stessi anni in cui una nuova generazione di campani comincia a vedere nell’anticamorra un motivo di impegno importante. (da.ch.)

1980-2010, fatti della storia d'Italia (che parlano all'oggi)/4

In Sicilia nel 1980 cade Piersanti Mattarella. E la storia prende un'altra direzione.



È il giorno dell’Epifania quando viene ammazzato Piersanti Mattarella, il democristiano presidente della Regione Sicilia. Un omicidio grave, gravissimo. Che sconvolge la vita dell’isola e parla al Paese intero.
Piersanti Mattarella è un big, figlio di un big. «È figlio di Bernardo – ricorda Pierluigi Basile, autore del libro “Le carte in regola” (pubblicato dal centro studi Pio La Torre) – l’uomo di potere che ha costruito la Dc nell’isola».
«Essere un Mattarella lo svantaggiava – sostiene Basile – dentro il partito e all’esterno, dove il Pci lo guardava con pregiudizio». Fa una carriera fulminea Mattarella: nel 1967 viene eletto deputato regionale, nella seconda metà degli anni 70 «si rende protagonista di una nuova stagione di battaglie meridionaliste». Divenuto assessore al Bilancio, poi, «inizia un percorso di trasparenza amministrativa, quella che lui chiama “la politica delle carte in regola”. Prova cioè a rompere i lacci e i laccioli del potere politico peggiore e della mafia, a pulire i luoghi del clientelismo». Supera le diffidenze, avvia il dialogo con il Pci (del segretario regionale Achille Occhetto) e fa crescere una generazione di giovani tra cui emerge Leoluca Orlando. Il processo trova sbocco nel ‘78 quando diventa presidente della Regione a capo di un governo che ha anche il sostegno del Pci (che non entra in giunta): “la politica delle carte in regola” diventa quella ufficiale. Punta sulla programmazione e le risorse locali (scrive a Zaccagnini per motivare il suo “no” al Ponte), controlla le spese degli assessorati. Interviene anche nell’edilizia «opponendosi allo scempio del territorio che aveva portato al “sacco di Palermo”». Provvedimenti concreti che restringono gli ambiti di manovra delle cosche e dei ras della Dc. Nell’autunno ‘79 dispone un’inchiesta sugli appalti di sei scuole che a Palermo sono finiti in mano a sei ditte riconducibili al boss Rosario Spatola. Fatti su cui indaga anche il procuratore di Palermo Gaetano Costa, ucciso il 6 agosto.


La situazione è tesa, e Mattarella lo capisce. Ne parla anche al ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Si impone la strategia dei corleonesi di Totò Riina e Cosa nostra nel ‘79 uccide il giornalista Mario Francese, il capo della squadra mobile di Palermo Boris Giuliano, il magistrato Cesare Terranova. Il cerchio si chiude con Mattarella.
«Se ragionassimo di fantastoria dovremmo chiederci cosa sarebbe successo se Mattarella non fosse stato ucciso?», si chiede Basile. La storia non si fa con i sé. Ma la Dc, che con Zaccagnini (e Mattarella, destinato a fargli da vice) sembrava orientata a continuare il dialogo col Pci, scelse invece Bettino Craxi. 
Chi ha ucciso Mattarella? Si conoscono i mandanti (la commissione di Cosa nostra, i cittadini e i corleonesi, che interrompono il nuovo corso della Regione) ma resta un mistero sugli esecutori materiali. La moglie di Mattarella, Irma Chiazzese, riconosce come killer il terrorista nero Giusva Fioravanti che finisce anche in un’inchiesta di Giovanni Falcone. Forse Cosa nostra e terroristi hanno l’interesse comune a indebolire lo Stato e pensano di poter condizionare gli eventi. Forse non ci riescono, ma certo la Sicilia di Mattarella era diversa da quella di Cuffaro o di Lombardo. (da.ch.)

1980-2010, fatti della storia d'Italia (che parlano all'oggi)/3

In Calabria uccidono Valarioti e Losardo.



Un doppio colpo alla democrazia. E il destino della Calabria cambia per sempre. Accade nel 1980, quando ormai da qualche anno, strada per strada, si combatte un corpo a corpo feroce tra la ‘ndrangheta e l’anti-‘ndrangheta.
Da una parte le cosche che ormai stanno nell’economia, hanno messo i propri uomini nella politica, hanno persino cambiato le regole per entrare nella massoneria. Dall’altra parte quello il più forte movimento anti-‘ndrangheta della storia della Calabria con giovani, movimenti e pezzi della chiesa protagonisti e con un punto di riferimento politico ben preciso, il Partito comunista.
L’11 giugno 1980 cade sotto i colpi dei killer il 30enne Peppe Valarioti. Muore tra le braccia del suo amico e padre politico Peppino Lavorato. È il segretario della sezione comunista di Rosarno, Peppe. Gli sparano due colpi di lupara all’uscita da un ristorante in cui ha appena finito di festeggiare la vittoria del partito alle elezioni provinciali e regionali. La sua morte chiude una fase politica complicata, di scontri e di maldicenze, una campagna elettorale tesissima che hanno il loro culmine quando, nel mese di maggio, proprio mentre si celebrano i funerali della madre del boss di Rosarno Peppe Pesce, il Pci è in piazza a gridare contro la ‘ndrangheta e Peppe Valarioti pronuncia il suo testamento morale: “I comunisti non si piegheranno”. Peppe è un professore precario e un politico anomalo. È ambientalista, meridionalista e appassionato di archeologia. È un giovane intellettuale che si sporca le mani con l’impegno politico e civile: «Tocca a noi. Se non lo facciamo noi chi deve farlo?». 


Passano appena dieci giorni e il 21 giugno ammazzano Giannino Losardo, 54enne segretario della procura di Paola, assessore ai lavori pubblici a Cetraro. Lo uccidono di ritorno a casa dopo un consiglio comunale infuocato in cui annuncia le sue dimissioni dalla giunta e denuncia relazioni pericolose tra ‘ndrangheta e politica. Giannino è un politico con la schiena dritta, uno che quando incontra per strada il boss Franco Muto neppure lo saluta. Denuncia pubblicamente un coacervo di interessi che coinvolge magistrati, imprenditori, funzionari, uomini delle forze dell’ordine. Ai funerali di Losardo arriva Enrico Berlinguer. Pronuncia parole chiare, denuncia i pericoli per la democrazia e chiama in causa i partiti sani a fare fronte comune. Non viene ascoltato. La situazione sta precipitando, la ‘ndrangheta ha colpito al cuore la Calabria e il partito che più di ogni altro rappresenta l’argine ai clan. Il giugno del 1980 segna il passaggio simbolico dalla battaglia al riflusso (anche perché i processi finiscono entrambi con un nulla di fatto) e la ‘ndrangheta (già entrata nella stanza dei bottoni) rompe gli argini, impone il consenso, si impadronisce della Calabria e inizia la sua scalata verso l’Italia e il mondo. Inizia quel lungo cammino che la porta a diventare quella che conosciamo noi oggi. (da.ch.)

1980-2010, fatti della storia d'Italia (che parlano all'oggi)/2

L'intervista allo storico Piero Bevilacqua sul 1980


di Danilo Chirico


Considera la casualità come un dato di partenza per partecipare a questo ragionamento sul 1980: «Diamola per scontata», avverte. È un gesto di prudenza assolutamente necessario per uno studioso. Poi però concede: «Bisogna fare una riflessione di metodo: il caso fa parte della storia e non bisogna stupirsi se esiste una coincidenza di eventi che si somigliano, creano coerenza, appaiono collegati». E allora con il professore Piero Bevilacqua, ordinario di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma, inizia una rassegna sui tratti distintivi del 1980. A partire dallo scenario internazionale. «È indubbio che il 1980 segna una fase nuova – dice - e non solo perché come storici, simbolicamente, vediamo il punto di partenza di una nuova fase del capitalismo e di riorganizzazione dello Stato», ma anche perché «effettivamente si entra in un decennio che segna una svolta di molti elementi». Spiega infatti che soprattutto negli Usa e in Gran Bretagna «si manifesta una crisi fiscale dello Stato sociale, i ceti medio-alti considerano sbagliata la progressività del sistema fiscale e troppo caro il welfare. Accusano di parassitarismo le fasce deboli». Basti pensare che «il sussidio di disoccupazione in Gran Bretagna è talmente ricco da disincentivare la ricerca del lavoro» e che complessivamente «la popolazione invecchia e pesa molto sul sistema pensionistico». Un quadro – che si aggiunge al fatto che il modello dell’Urss di Breznev «è incapace di indicare prospettive nemmeno per se stesso» - che «favorisce la politica di Margaret Thatcher (iniziata nel ‘79)» e spalanca le porte a Ronald Reagan nel 1980.


Ecco quindi l’analisi dello storico di origine calabrese: «Gli anni 80 sono l’avvio di una fase storica nuova – spiega - in cui il capitalismo e l’elite borghese propongono un nuovo progetto di società». Ricorda Bevilacqua: «Quando Reagan si insedia – insiste – pronuncia la famosa frase “Lo Stato non è la soluzione, lo Stato è il problema” che rappresenta una novità storica assoluta per l’Occidente». Su queste basi, unite a «un’economia bloccata», nasce una svolta, spiega Bevilacqua. «A questo punto qualcuno tira fuori dalla tasca una grande suggestione: la proposta neoliberista». Che significa «meno Stato e più libertà ai privati». Un messaggio di «promessa di arricchimento» che «si articola in liberalizzazioni e nella vendita di pezzi importanti dell’economia pubblica, un messaggio di libertà dalla burocrazia e dai vincoli». Un messaggio che fa presa su larga parte della società ed esercita la sua fascinazione anche «sui partiti della sinistra».


Naturalmente la situazione internazionale non può non esercitare la sua influenza anche sul nostro Paese: «In Italia c’è il blocco dei partiti – afferma Bevilacqua - con una Dc che è diventata partito-Stato e un Pci che è cresciuto ma non appare in grado di essere alternativa». La soluzione, sottolinea lo storico, «viene intravista in Craxi e in un piccolo partito che si presenta come portatore di un messaggio di modernizzazione neoliberista, di esaltazione del privato, dell’effimero, dell’arricchimento individuale». Lungo queste linee teoriche «nascono le famose esortazione di Craxi (“Italiani arricchitevi”) o realtà come “la Milano da bere”», rileva. Soprattutto lungo queste linee teoriche e politiche nasce il fenomeno Silvio Berlusconi. «Berlusconi si inserisce nell’alveo di questo mutamento epocale di cultura, psicologia, immaginario – osserva Bevilacqua - che inizia nel 1980 e si chiude con la crisi del 2008, come dimostra anche la “Breve storia del neoliberismo” scritta da David Harvey che, tra l’altro, dimostra che il Pil mondiale nell’ultimo trentennio sia cresciuto molto meno che nelle epoche precedenti». Su questo, il Bevilacqua-studioso precisa: «Voglio dire però che in nessuno degli scritti su Berlusconi, anche quelli molto seri, sono davvero evidenti i legami con il neoliberismo e la sfida che i ceti dominanti hanno lanciato alla sinistra e al movimento operaio». Aggiunge un’annotazione che andrebbe considerata nei commenti in voga in queste settimane sulla crisi di un’era politica: «Berlusconi finisce anche perché è finito il neoliberismo».


Poi il discorso torna agli eventi del 1980, ai tanti fatti importanti accaduti in quell’anno. «Diciamo che questa temperie storica – sottolinea Bevilacqua - unisce realmente gli episodi, li rende meno casuali, più figli dello stesso periodo». Poi aggiunge che visto che «dobbiamo calcolare la nostra soggettività e dobbiamo osservare anche che siamo portatori di idee di connessione» e visto che «conosciamo il sottofondo mondiale», possiamo «avere una lettura meno ingenua della casualità». Sono fatti importanti quelli del 1980, che – magari forzando un po’ le parole di Piero Bevilacqua - potrebbero avere (o trovare) una connessione. Quel che appare evidente è l’incidenza che hanno sulla realtà contemporanea, la capacità di proiettarsi nel 2010. Eppure, secondo lo storico, purtroppo parlano «pochissimo all’Italia di oggi. Perché viviamo in nell’epoca della dittatura del presente, in cui le notizie vengono consumate subito per vendere le nuove». Se questa classe dirigente avesse scelto di guardarsi indietro forse avrebbe capito qualcosa in più. «La storia aiuta sempre – sentenzia con un certo orgoglio Bevilacqua - e gli anni 80 fanno capire molte cose». È in quel periodo che «in Italia si arriva a un elevato grado di benessere ma con un crescente debito pubblico». In quel periodo cresce il mito individualistico «che ha impedito di fare due cose fondamentali: una legge urbanistica in grado di impedire il saccheggio del territorio e una legge per progettare i trasporti collettivi nelle città e tra le città e le periferie». Gli anni 80 mostrano insomma tutti «i limiti di una politica che esalta l’individualità privata e che fallisce». Non una battuta, ma un pezzo di un ragionamento più ampio, di un percorso di studio che l’ha portato a scrivere un libro (“Capitalismo distruttivo” in uscita per Laterza a gennaio) in cui «provo a fare il resoconto dell’ultimo trentennio». Il risultato è demoralizzante: «C’è meno crescita e più disuguaglianza», ci sono «il saccheggio del territorio, lo sfruttamento delle risorse del pianeta e il peggioramento della qualità della vita». E questa crisi strutturale, prevede, «è un disastro che durerà a lungo». 


Ci sono altre due cose che alla fine della conversazione Piero Bevilacqua dice. La prima riguarda la partecipazione politica, e gli viene fuori sul filo del ricordo, della passione: «Nel 1980 siamo dopo l’omicidio di Aldo Moro: le Br entrano in crisi e tutta la responsabilità viene messa sulle spalle della sinistra, delle lotte per i diritti. Ricordo come fosse ieri – aggiunge - che pensare a una manifestazione di massa era considerato un atto politico osceno». La seconda si riferisce ai troppi misteri d’Italia, che nel 1980 hanno in Ustica e nella strage di Bologna due capitoli essenziali: «I misteri incidono sempre rapporto di sfiducia nelle classi dirigenti», tanto che «qualcuno ha teorizzato l’esistenza di un doppio Stato, uno reale e l’altro segreto». E in questo Paese «c’è un grande deficit di democrazia. Parte della classe dirigente è sempre stata infedele allo Stato e nei momenti di crisi ha cercato l’eversione. Vale per il fascismo, per i tentativi di colpo di Stato, per la strategia della tensione, per la P2». E chiude: «Anche Berlusconi è eversivo». Parola di storico.

1980-2010, fatti della storia d'Italia (che parlano all'oggi)/1

Avete mai pensato a quanti fatti sono accaduti nel 1980? E a quanto parlano all'Italia di oggi? Questo un lavoro pubblicato dal Quotidiano della Calabria domenica 18 dicembre. Un anniversario, il trentesimo, su cui riflettere.
Sono cinque pezzi: un riassunto dei fatti più importanti (che messi insieme fanno impressione per l'attualità che conservano), un'intervista allo storico Piero Bevilacqua, e tre pezzi di approfondimento su tre fatti di mafia avvenuti in Calabria, Sicilia e Campania.



di Danilo Chirico


Fatti che parlano all’Italia di oggi. Che magari hanno cambiato il corso della nostra storia e nessuno se ne è reso davvero conto. Fatti che hanno aperto scenari inaspettati e modificato equilibri politici. Che sono l’inizio, o l’inizio della fine, di un modello positivo. Che hanno ucciso e non hanno insegnato niente. Che hanno tracciato una strada dalla quale non si riesce a uscire. Che ci devono delle risposte e non ce le hanno date. Che raccontano un Paese che c’era e uno che c’è.
Fatti che sono accaduti tutti nel 1980. Per caso, certamente. Eppure, come dice nelle pagine successive il professore Piero Bevilacqua, «il caso fa parte della storia e non bisogna stupirsi se esiste una coincidenza di eventi che si somigliano, creano coerenza». Non sarà importante come il 1948 per la Costituzione, non come il ‘60 celebrato da Gabriele Salvatores, non come il 1968 o il 1977. Eppure il 1980 è importante. E a trent’anni di distanza, basta leggere d’un fiato i fatti, le date per capire che è stato un anno straordinario. Nel bene e nel male.
Parla, e parla molto, all’Italia di oggi, alle sue regioni con i conti disastrati (Calabria in testa), il fatto che il primo gennaio 1980 entra in vigore il Servizio sanitario nazionale che diventa presto un modello per mezzo mondo.


Il 6 gennaio viene assassinato a Palermo il presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, uomo nuovo della Dc. Guarda a sinistra e chiude le porte a Cosa nostra. Una bella differenza con la Sicilia di oggi. Sarebbe diventato vice di Zaccagnini e avrebbe continuato il dialogo con il Pci. La sua morte e il “preambolo” anticomunista di Carlo Donat Cattin hanno cambiato il corso delle cose.
Il 12 febbraio le Br uccidono il vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet. Non è l’unica vittima del terrorismo. Cade anche il giornalista Walter Tobagi, molti altri. Una scia che va avanti fino al 31 dicembre quando viene ucciso il generale dei carabinieri Enrico Galvaligi. Il 22 febbraio viene assassinato dai fascisti lo studente Valerio Verbano. A marzo scoppia lo scandalo del calci-scommesse, probabilmente la prima crepa nello sport più amato dagli italiani.
Mettendo in parallelo il 1980 e il 2010 forse non è proprio un’eresia sostenere che idealmente Fiat ha iniziato a scrivere trent’anni fa la storia di Fabbrica Italia, dei diritti negati a Pomigliano, dei licenziamenti alla Sata di Melfi. Da maggio a ottobre succede di tutto, e sembra oggi: le vendite crollano, il duro Cesare Romiti (che pure non accetta il parallelo con Marchionne) prende il timone dell’azienda e annuncia subito migliaia di licenziamenti e di operai da mandare in cassa integrazione. Spunta persino l’idea di vendere all’estero l’Alfa Romeo. Il 14 ottobre accade l’incredibile: per le strade di Torino sfilano i 40mila colletti bianchi di Mirafiori. Naufragano le battaglie sindacali sotto i colpi dei vertici Fiat.


A giugno cambia il destino della Calabria e della ‘ndrangheta: l’11 viene assassinato il segretario del Pci di Rosarno Peppe Valarioti, dieci giorni dopo cade sotto i colpi dei killer l’assessore comunista del comune di Cetraro Giannino Losardo. 
Poi è tempo di misteri, intrighi e verità nascoste. Il 13 giugno viene arrestato a New York il faccendiere vicino alla mafia Michele Sindona, il 27 giugno scoppia la guerra (?) sui nostri cieli e nella zona di Ustica un missile abbatte un aereo che trasporta 81 persone da Bologna a Palermo. Il 18 luglio viene trovato – e non si capisce il perché – un mig libico sulla Sila. La mattina del 2 agosto una bomba distrugge la stazione ferroviaria di Bologna e uccide 83 persone. L’8 agosto muore in un incidente d’auto il comandante della base aerea di Grosseto, primo di una serie di strani incidenti legati a Ustica. Pagine buie, a distanza di trent’anni, che raccontano di un Paese a democrazia limitata.


L’estate del 1980 è anche l’estate dell’omicidio (il 6 agosto) del procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa, ennesimo capitolo della strategia stragista di Cosa nostra.
C’è un altro evento importante nel 1980, che punta dritto al cuore dell’Italia di oggi: il 30 settembre appare per la prima volta su uno schermo televisivo il logo di Canale 5. Il presidente di Fininvest Silvio Berlusconi inizia la sua avventura di tycoon che lo porterà a monopolizzare il settore, a cambiare il linguaggio e le abitudini del Paese e poi a varcare il portone di Palazzo Chigi. Per la televisione italiana è un’annata da ricordare per almeno altri due motivi: il 21 aprile c’è la prima puntata di Mixer, il bel programma di Giovanni Minoli, a settembre Raitre invece manda in onda il Processo del lunedì di Aldo Biscardi che segna la nascita del calcio parlato.


Poi il protagonismo della camorra. Il 7 novembre a Ottaviano, il regno di Raffaele Cutolo, viene ammazzato il medico dei poveri e giovane consigliere comunale del Pci Mimmo Beneventano: si oppone alle speculazioni edilizie. L’11 dicembre viene ucciso il sindaco di Pagani, il democristiano Marcello Torre che paga il suo rifiuto di fare affari con i clan. In mezzo, il 23 novembre, la tragedia del terremoto dell’Irpinia che fa migliaia di morti, decine di migliaia di sfollati, miliardi di danni. È la sublimazione del sistema perverso che esiste tra inefficienze di Stato, appalti truccati, politica corrotta e dominio dei clan. Le notizie sinistre che arrivano oggi dall’Aquila, con i cittadini esasperati e le cricche e i clan a fare da padroni non sono proprio incoraggianti. Neppure a trent’anni di distanza l’accorato appello del presidente della Repubblica Sandro Pertini («Non vi lasceremo soli», disse ai campani terremotati) serve come insegnamento.

venerdì 17 dicembre 2010

Lunedì a "Lucarelli racconta" daSud su Rosarno

Lunedì 20 dicembre su Raitre a partire dalle 21 la terza puntata del nuovo programma di Carlo Lucarelli "Lucarelli racconta". Nell'ambito dell'inchiesta realizzata, tra gli altri, da Mario Portanova e che riguarda il mondo del lavoro in Italia si parla anche del caso Rosarno. Ci sarà anche l'associazione daSud con il suo dossier Arance insanguinate e un'intervista a Danilo Chirico.


Qui il promo della trasmissione.

Il 2 gennaio ospite del Premio Fava

Il 2 gennaio si apre a Palazzolo Acreide (Sr) il premio Giuseppe Fava, dedicato al direttore de "I siciliani" assassinato dalla mafia. Nel corso della prima giornata, alle 17,30 nella sala del comune, ci sarà anche un mio intervento. Con un'intervista in cui parlerò dell'associazione daSud, dell'archivio Stopndrangheta.it e dei libri Il caso Valarioti e Dimenticati. Vittime della 'ndrangheta.
Il giorno dopo è prevista la presentazione del fumetto su Pippo Fava, di daSud e Round Robin Editrice, realizzato da Luigi Politano e Luca Ferrara.


Ecco il programma completo:

2 Gennaio 2011
- 10:30 Aula Consiliare del comune
[VISIONI URBANE: SQUARCI DI RESISTENZA]
Sonia Giardina – Documentarista, giornalista
- 17:30
[1991-2011 APA: 20 ANNI DI ANTIRACKET]
Paolo Caligiore – Presidente associazione palazzolese anti-racket “Pippo Fava”
Leonardo Licitra – Presidente giovani imprenditori confindustria Ragusa
Giorgio Straquadanio – Libera Coordinamento Ragusa
AddioPizzo Catania e Filippo Casella – Imprenditore che ha detto no al racket
Modera Massimiliano Perna – IlMegafono.org


Intervista a Danilo Chirico – giornalista, associazione “daSud”


- 21:30 BLOB – Contenitore Multiuso – Via Maestranza 28/30 Palazzolo Acreide
[MUSICA CONTRO LE MAFIE] - ingresso libero
Peppe Qbeta
LaPazzi


3 Gennaio 2011
- 10:30 Aula Consiliare del Comune
[GRAPHICNOVEL - L'ANTIMAFIA A FUMETTI]
Luca Ferrara – Fumettista
Lelio Bonaccorso – Fumettista e disegnatore
Luigi Politano – Giornalista
- 16:30
[Premiazione II Concorso scuole G. Fava: "La verita` in immagini e scritti"]
- 17:30
[PRESENTAZIONE DEL FUMETTO "Pippo Fava, lo spirito di un giornale" di L. Politano e L. Ferrara]
Luigi Politano – Giornalista
Luca Ferrara – Fumettista
Avv. Adriana Laudani
- 18:30
[DAL BENE AL MEGLIO: USO SOCIALE DEI BENI CONFISCATI ALLE MAFIE]
Armando Rosstitto – gia` dirigente scolastico ed assessore alla legalità ed alle politiche giovanili del comune di Lentini
Alfio Curcio – Cooperativa “Beppe Montana”
Giusy Aprile – Coordinatrice provinciale Libera
- 21:30 BLOB – Contenitore Multiuso – Via Maestranza 28/30 Palazzolo Acreide
[TEATRO CONTRO LE MAFIE] ingresso libero
“I Siciliani” – Magma Teatro


4 Gennaio 2011
- 10:30 Aula Consiliare del Comune
[GIORNALISMO A SUD: FORUM DI INFORMAZIONE LIBERA IN SICILIA]
Lavori in corso: UCuntu, StepOne, La periferica, I Cordai – Catania possibile – Magma – Il Clandestino – adEst – CorleoneDialogos – IlMegafono.org – La Civetta
- 17:30
[MISTERI E STRAGI, DA PORTELLA DELLA GINESTRA ALL'AGENDA ROSSA]
Claudio Fava – Giornalista, scrittore
Francesco Viviano – Giornalista per La Repubblica
Alessandra Ziniti – Giornalista per La Repubblica
Riccardo Orioles – Redattore de “I Siciliani”
Coordina Pino Finocchiaro – Giornalista di RaiNews24
- a seguire
["IO HO UN CONCETTO ETICO DEL GIORNALISMO..."]
Gaetano Alessi – AdEst
Pino Maniaci – TeleJato
Gianluca Floridia – Coordinatore provinciale Libera Ragusa
Gabriella Galizia – Coordinamento Fava
Consegna del V premio Giuseppe Fava sezione Giovani “Scritture ed immagini contro le mafie”

lunedì 13 dicembre 2010

Incontro con Davide Enia

È il drammaturgo e attore palermitano Davide Enia il terzo protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento - collettivo e individuale - sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.


DANILO CHIRICO
Se parla del mix di tradizioni presenti in Sicilia ti illustra la ricetta dell’arancina. Se gli chiedi un riferimento per far ripartire il cammino interrotto del Sud lui pensa al Palermo calcio. Non capisci subito dove voglia arrivare, ma alla fine il senso del suo ragionamento ti sembra l’unico possibile.
È piacevolmente spiazzante parlare con Davide Enia, 36enne attore e drammaturgo palermitano.  Ti dice della cucina e del calcio - le sue passioni – e ti sta raccontando un mondo intero. Non solo. Quando parla dà fino in fondo l’idea di essere sincero: quando racconta di sé, del suo lavoro, della sua città. Forse è per questa sua irritualità che le sue opere, nate a Palermo e «pensate in palermitano», sono state capaci di parlare a mezzo mondo e tradotte in sette lingue. Enia ha grandi meriti artistici. Tra questi, sicuramente, quello di avere reso contemporaneo il linguaggio del racconto, del cuntu. È stato una delle modalità che ha scelto per praticare il sud (ci abita, ci lavora, ne subisce le influenze, lo racconta) confrontandosi con il mondo. Glielo fai notare, e lui si schermisce: «Parliamoci chiaro: quello era un teatro che si poteva fare con due soldi. E io ogni mese dovevo pagare l’affitto », rileva.
Un percorso originale, che merita di essere raccontato. Lui si presta in una pausa di lavoro.  Sta scrivendo un romanzo. «Nessuno vive di teatro in Italia. Il teatro è morto e mi hanno fatto un’offerta interessante: ero disoccupato e l’ho accettata. Questo non sposta di una virgola la dignità di quello che faccio, la passione, l’importanza». Unica concessione sul romanzo insieme al fatto che uscirà nel 2011. Poi si torna a parlare di meridione. Per smontare pezzo dopo pezzo tutti i luoghi comuni. A partire dallo stesso concetto di sud: «È un’espressione geografica schiava della logica cartografica con cui guardiamo le cose», osserva deciso. E proprio partendo «da questo assunto sbagliato che abbiamo legittimato logiche discriminatorie e creato barriere inesistenti». Se poi il riferimento è al sud come «luogo letterario» va anche peggio: «Ha fatto danni incredibili: è frutto della vigliaccheria di chi si rifiuta di confrontarsi con gli altri», è «il sintomo dell’incapacità politica», ha creato le condizioni per «abbandonarsi al fatalismo». O magari ha fatto credere, come si usa dire banalizzando, che «in Sicilia si potrebbe vivere solo di turismo: una bugia incredibile». Basti pensare «all’assenza di infrastrutture» o alle eccellenze artistiche e del territorio «completamente abbandonate». E allora la conclusione non può che essere una: «Smitizzazione questo luogo» partendo dal fatto che «se vuoi capire il sud devi andare a vedere cos’è il nord». Non è un concetto scontato quello del confronto: «Troppo pochi siciliani» lo cercano. È sufficiente pensare «ai produttori di vini: quanti sono quelli che vanno all’estero? – sottolinea - È pavidità mascherata dalla convinzione sbagliata di essere i migliori». Probabilmente è per questa sintesi perversa di ragioni che vale il detto “cu niesce, riniesce”, «interpretazione dialettale del “nemo propheta in patria”».

Ce l’ha fatta invece Davide Enia. Scegliendo Palermo «perché è la mia città, perché avevo i miei affetti -  racconta – perché è accogliente». Perché racconta un mondo che sta dentro le cose che Enia scrive e porta in scena. E poi c’è il dialetto («il mio primo linguaggio»), che tiene insieme «ritmi, gesti, silenzi, smorfie, mezze parole», che è «l’urgenza che perde il barocco», che ha «la grande fortuna di fare ridere».
Eppure questa Palermo così «struggente e lancinante», oggi «non è più un posto bello in cui vivere». Pertanto confessa: «Sto ripensando molto al mio stare qui – spiega - non ho vocazioni alla perdita di tempo. Non si cambia il mondo, bisogna fare bene il proprio lavoro». Non è tristezza, è che non ne può più. A fare le cose difficili in fondo c’era già abituato Davide. «C’è uno svantaggio innanzitutto economico per chi fa l’attore a Palermo», sostiene, e poi c’è il deficit di stare lontano da Roma e dai luoghi “politici” del teatro. Tuttavia fino a poco tempo fa, Enia non aveva dubbi: a Palermo stava accadendo qualcosa e lui ne era protagonista. Rivendica infatti con grande orgoglio che, «senza nessun aiuto istituzionale qui sono nate due realtà che si sono imposte in campo internazionale. Non era mai successo». Il riferimento, oltre che a se stesso, è a Emma Dante, straordinaria autrice e regista. «Avevamo talento e abbiamo deciso di puntarci tutto», dice. Un gesto di coraggio senza paracadute («non avevamo una lira») e «l’ostinazione e la presunzione di considerare il tuo lavoro valido ed esportabile». È questo uno dei frutti più autentici di una generazione particolare, quella di chi ha attraversato gli anni 80, «in cui c’era un’ammazzatina al giorno», e quella che ha sentito con le proprie orecchie le bombe degli anni 90. «In una totale assenza di senso – dice - abbiamo costruito un forte contenuto di senso». Non si è trattato di casi isolati: dagli attori cinematografici, ai musicisti palermitani che per tre anni consecutivi hanno vinto Arezzo Wave. «C’è stata una grande esplosione dei talenti, l’ultimo colpo di coda: non so quando ricapiterà». Nel frattempo questa situazione favorevole, e forse irripetibile, di creatività, fermento e passione ha subito una devastante battuta d’arresto. Che secondo Davide Enia ha un nome e un cognome: Diego Cammarata, sindaco da quasi dieci anni della città di Palermo, uomo di Silvio Berlusconi. L’attacco di Enia è pesante e lucido. «Dall’arrivo della giunta Cammarata, otto anni fa, c’è stata l’ostentazione dell’incapacità, dell’ignoranza, del menefreghismo». Chi amministra non ha «nessuna idea di futuro, ignora la realtà, crea un’immagine di un luogo inesistente come salvagente per la propria mediocrità».
Anche il poco di positivo rimasto «è stato letteralmente sbranato a carne cruda, abbassando in maniera preoccupante l’asticella della decenza». Il risultato è che «oggi il palermitano si “accolla” tutto». Non fa sconti, Enia. Affonda i colpi: «La città è una fogna e nessuno ha l’onestà di ammettere come stanno le cose o di assumersi le responsabilità». E invece le responsabilità sono chiare: «Chi ha guidato la città in questi anni? Chi ha sbagliato tutte le scelte sul traffico e i rifiuti?». Cammarata è il responsabile primo, ma l’attore palermitano non dimentica che «questa amministrazione è stata votata da più della metà dei miei concittadini» e che «non mi pare di vedere nessuna indignazione o sacrosanta rabbia rispetto allo stupro continuato della nostra città. Qui c’è rassegnazione tacita». E nessuna indulgenza. Insomma, «stiamo andando a rotoli».

Tuttavia ci sono passioni e stimoli da cui ripartire. Ne è convinto Davide Enia: «Il Palermo gioca il più bel calcio d’Italia, restituisce un’idea di bellezza e tiene vivo un fortissimo orgoglio anche da parte di chi se n’è andato». E poi c’è l’eccellenza della gastronomia «che dovrebbe essere più consapevole. Non riesco a credere che non esiste nulla a tutela di cibo, vini, tradizione, cibo di strada». Non si capacita del fatto che «la politica sia così miope rispetto a tutto questo». La Sicilia «è un piccolo continente, raccoglie tremila anni di tradizioni». Si ferma un attimo. Poi riprende, con una grazia sorprendente: «Un cibo popolare può racchiudere storie e tradizioni di migliaia di anni. L’arancina tiene dentro di sé il riso dell’Asia, lo zafferano dell’Afghanistan, il pomodoro dell’America, il ragù della Francia, la panatura del Maghreb». C’è un mondo dentro l’arancina, che la Sicilia però può perdere. Se non recupera il senso di essere isola, il rapporto con il mare, la consapevolezza di stare al centro del Mediterraneo, l’apertura agli stranieri. Ecco la Sicilia secondo Enia. Allora da dove ripartire? Lui ci pensa un attimo: «Da Ciccio il Sultano, al Duomo di Ragusa Ibla, e da Pino Cuttaia a “La Madia” di Licata», risponde sicuro. Spiega: «Mangiando in questi due ristoranti si può conoscere davvero l’eccellenza e l’enorme potenzialità del nostro territorio, imparando da chi in silenzio compie una grande opera culturale». Per dopo pranzo, «un bicchiere di Vecchio Samperi, di Marco di Bartoli, cioè il marsala come dovrebbe essere». Ovvero i sensi come fondamento dell’identità meridionale.

danilochirico@dasud.it
Pubblicato su Terra il 12 dicembre 2010

domenica 12 dicembre 2010

Incontro con Dario De Luca

L’attore e autore teatrale calabrese Dario De Luca, fondatore con Saverio La Ruina della prestigiosa compagnia Scena verticale, è il secondo protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento - collettivo e individuale - sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.

DANILO CHIRICO
Ci sono alcune cose che già pensarle diventa un’impresa. Cose su cui nessuno scommetterebbe un centesimo. Una di queste cose è quella di decidere di fare teatro in Calabria. Nuovo teatro e ricerca, di organizzare un festival. E invece a volte può accadere: che fai nascere una compagnia e che diventi subito riconoscibile, che la tua poetica sia in grado di raccontare un territorio oscuro e inedito come la Calabria, che un dialetto sconosciuto e complicato diventi lingua teatrale, che organizzi una rassegna che diventa ambita e apprezzata. È accaduto in Calabria, a due attori e autori. Si chiamano Dario De Luca e Saverio La Ruina e 18 anni fa hanno fondato Scena verticale (alla compagnia, come organizzatore, qualche anno dopo s’è aggiunto Settimio Pisano). Una storia che va raccontata. Per “Creatività meridiane”, il viaggio del Domenicale di Terra attraverso idee, pratiche e memorie per costruire una nuova identità meridionale, lo fa Dario De Luca. Che parte dall’inizio: Scena verticale «nasce per un’urgenza come tutte le cose che facciamo – spiega Dario – nasce dall’esigenza che avevamo di fare teatro in Calabria. Il nostro percorso creativo e la nostra poetica nascono da un’utopia lavorare nella periferia dell’impero, investire sui nostri luoghi invece che a Roma, nella Romagna felix o a Milano». Dario e Saverio si conosco lavorando a un progetto teatrale che chiude dopo un solo anno. Si conosco e si riconoscono, capiscono che è l’ora di mettersi in gioco nonostante il momento sfavorevole. Racconta: «Tutti ci dicevano che non era il caso», ricorda. In Calabria le strutture erano chiuse o annaspavano, a Roma «era stato appena soppresso il ministero». Non si scoraggiano Dario e Saverio, sentono «l’urgenza» (un termine che ricorre spesso durante la conversazione) di fare, presuntuosamente pensano che «in un territorio vergine come la Calabria si poteva creare una comunità teatrale». E si buttano nella mischia. Per prima cosa si mettono a fare «tanto teatro ragazzi perché è una palestra formidabile visto che a quel tempo c’era molto poco spazio per esibirsi, c’erano pochi teatri, pochi organizzatori, poche stagioni». Ma c’è anche un’altra ragione: «Pensavamo di creare il pubblico del futuro».

Il ragionamento, apparentemente strano, ha un suo fondamento: «Quando usciamo dal cinema, dopo aver visto un film, tutti ci sentiamo giustamente in diritto di commentarlo, di dire la nostra. Ne abbiamo l’abitudine, l’abbiamo acquisita da piccoli». Bene, secondo Dario, bisogna fare lo stesso con il teatro: «Bisognerebbe creare il teatro dell’obbligo, creare la curiosità e l’abitudine, evitare che ci si trovi a dire che il teatro è noioso, che non si capisce, non si conosce. Se vedi uno spettacolo da ragazzo ti sembra più normale andare a teatro da grande».
Va avanti così per alcuni anni. Fino al 1996, quando c’è un nuovo inizio per Scena verticale: Dario e Saverio iniziano «a ragionare su un percorso e un progetto autonomo». È l’anno del primo spettacolo “scritto, diretto e interpretato” da De Luca e La Ruina. Si intitola “La stanza della memoria” contiene dentro di sé i germi della poetica, dei temi, dei linguaggi di Scena verticale. È l’inizio «del nostro percorso artistico vero e proprio: comincia il racconto della Calabria delle mille contraddizioni che viviamo giornalmente, di una terra straordinaria che ti dà e ti toglie». Lo spettacolo, «affettivo e ironico», racconta di un mondo contadino che è andato perduto e che è stato sostituito dal nulla. E poi in questo spettacolo c’è per la prima volta la trasformazione del «nostro dialetto in lingua teatrale». È la svolta. Che si consolida con la presenza dello spettacolo De-Viados a Teatri 90 e che esplode con il progetto ambizioso della trilogia calabro-scespiriana «che racconta di vuoti esistenziali, della incompiutezza di noi calabresi, della tristezza che abbiamo negli occhi, della nostra incapacità di prenderci cura del bene comune». Vanno in scena “Hardore di Otello”, “Amleto ovvero Cara mammina” e “Kitsch Hamlet”, spettacoli apprezzati dal pubblico e dai critici. Dopo aver visto un loro spettacolo al festival di Sant’Arcangelo di Romagna, Goffredo Fofi «attesta l’importanza della nostra compagnia come esperienza di un teatro che viene pensato come pensiero meridiano», ricorda con orgoglio Dario.
Poi la compagnia porta in scena due straordinari spettacoli di Saverio La Ruina: “Dissonorata” e “La Borto”. «Raccontano di una comunità femminile umiliata e offesa, raccontano cose del nostro villaggio che diventano grido di dolore universale delle donne». Per “Dissonorata” La Ruina si aggiudica due premi Ubu (il più importante premio del teatro italiano) nelle categorie “Migliore attore” e “Nuovo testo italiano”. Per “La Borto” oggi è nella terzina finalista insieme a due mostri sacri come Alessandro Gassman e Fabrizio Gifuni.
A Scena verticale va anche dato il merito di aver portato in scena la ‘ndrangheta. È uno spettacolo scritto e diretto da Dario questa volta: si intitola “U Tingiutu. Un Aiace di Calabria”. «Sentivo l’esigenza – spiega – di avviare una riflessione su questo tema, di cominciare a parlare di ‘ndrangheta sul palcoscenico di un teatro. È una ferita ancora aperta – chiarisce – non è facile entrare in questa cosa, scegliere il modo. Il lutto non è stato ancora elaborato, si ripete, si reitera. Non abbiamo la distanza giusta per parlarne con lucidità, forse per questo mi sono fatto aiutare dal mito greco» che infatti attraversa tutto il bellissimo spettacolo.
È un percorso pieno di curve eppure molto coerente quello della compagnia calabrese, il percorso di chi ha deciso di restare in Calabria e tuttavia non s’è mai chiuso nelle proprie certezze: «Ci siamo sempre posti il problema del confronto con le realtà nazionali», dice Dario. Anche per questo forse sono riusciti a vincere la loro scommessa. La prima. Eppure quando chiedi a Dario De Luca quando è il momento in cui hanno pensato di avercela fatta, lui risponde secco: «Ancora non l’abbiamo detto». Poi aggiunge: «Certo oggi ci sentiamo di far parte di più della comunità teatrale italiana, ma è tutto davvero fluttuante». In questo senso forse influisce non avere un proprio teatro. «Avere una casa – spiega – significa avere una riconoscibilità diversa. Ne è un esempio il Teatro Piccolo di Milano che riesce a essere se stesso anche dopo aver perso Paolo Giani e Giorgio Streheler. Avere un teatro significa far sì che rimanga qualcosa».

Forse è anche per questo che Scena verticale non produce solo spettacoli, ma ha deciso nel 1999 di dare vita a un festival. A Castrovillari, provincia di Cosenza, anche questo provincia dell’impero teatrale. «Partecipammo al bando dell’Eti, l’Ente teatrale italiano – ricorda De Luca - proponendo l’ipotesi di un festival del nuovo teatro al sud con l’intento ambizioso di farlo diventare un polo del teatro contemporaneo italiano». È un bando importante. Alla fine vince Scena verticale insieme a due mostri sacri come Gabriele Vacis e Leo De Bernardinis. Un’occasione imperdibile. Primavera dei teatri diventa subito un appuntamento importante. «Siamo diventati una realtà riconosciuta e riconoscibile e dopo 11 edizioni possiamo dire di avere assicurato la continuità: non era per nulla scontato in Calabria», dove gli enti locali sono impegnati a sostenere decine di generiche e spesso inutili sagre paesane. «Ma la cosa di cui siamo molto orgogliosi – sottolinea Dario - è di essere stati una sorta di avamposto: siamo arrivati prima di molti altri con molti spettacoli, molti attori, molte compagnie, abbiamo ospitato cose che solo dopo sono diventate importanti. È successo con Emma Dante, con Ascanio Celestini, persino con alcuni spettacoli di Fabrizio Gifuni».
Un’altra scommessa vinta in questo Sud pieno di contraddizioni. «A volte penso che siamo ancora al Regno delle Due Sicilie, nonostante la tanto sbandierata unità d’Italia, nonostante i 150 che stiamo per festeggiare – polemizza - È una situazione complessa: troppo spesso ci sentiamo sudditi non veri cittadini dell’Italia». Una considerazione amara. Che vale per tutto il Sud anche se di Sud ne esistono molti: «Siamo diversi e abbiamo problematiche differenti», ma c’è una cosa che «ci lega: la sofferenza», non ha dubbi Dario. «È per questo che ci riconosciamo sempre e comunque. È atavica, l’abbiamo nei segni del viso, nel nostro agire ostinato», dice. Anche per la sofferenza ci sono reazioni differenti: «A volte diventa piagnisteo, richiesta d’aiuto servile». E invece no. Invece «esiste anche un Sud che prova a raccontarsi e che con dignità e orgoglio prova a essere protagonista del proprio agire». Un nuovo inizio per il nostro Paese con alcuni punti di riferimento: innanzitutto «le lezioni sulla Costituzione di Calamandrei». Poi i discorsi di Fausto Gullo, storico comunista calabrese della Costituente, «un politico lucido che aveva una grandissima forza e pulizia intellettuale». E propone anche di andarsi a rileggere il libro “Sull’identità meridionale” di Mario Alcaro, filosofo e docente dell’università della Calabria. Letture che devono servire a rimettere in campo «le passioni dei giovani. È per questo – insiste Dario – che non ho mai smesso di fare laboratori nelle scuole». Con che risultati è presto per dirlo. Di certo, sottolinea «se ci stai in una terra devi provare a impegnarti per renderla migliore. Altrimenti – dice – in posti come la Calabria non è neanche il caso di rimanere ed è meglio andare via». E invece «io penso che bisogna che al sud ci riprendiamo in mano nel nostre vite». Ognuno per la sua parte.

danilochirico@dasud.it
Pubblicato sul quotidiano "Terra" 5 dicembre 2010

venerdì 10 dicembre 2010

Cancun, reportage per Terra

daSud con Rigas (la Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale) è a Cancun per il vertice Onu sui cambiamenti climatici (e i relativi controvertici). Ecco il mio reportage per Terra.
Sul sito reteambientalesociale.org gli aggiornamenti quotidiani e tutti gli articoli. La manifestazione del 7 dicembre è stata ripresa in tutto il mondo. Ecco la Bbc


DANILO CHIRICO
CANCUN - I giornali locali dicono che fa freddo. Alcuni lo strillano persino in prima pagina che quest’ondata durerà ancora per qualche giorno. A leggere i quotidiani di Cancun sembra di stare nel Nord Europa bloccato dalla neve. La realtà, naturalmente, è che le “rigide” settimane del vertice mondiale Cop 16 sul clima prevedono solo poche nubi e qualche raffica di vento. Sarà per questo presunto maltempo che i governi di tutto il mondo in arrivo in Messico non riescono a cogliere l’urgenza di trovare un accordo che arresti il riscaldamento globale?
Ironia a parte, è sufficiente che ministri e capi di governo alzino gli occhi al cielo o respirino un po’ più profondamente per cogliere il livello impressionante di smog nell’aria e capire che siamo ben oltre il livello di guardia.


Cancun è probabilmente la città più adatta dal punto di vista delle infrastrutturale a ospitare il Cop16 con centinaia di delegazioni provenienti da ogni parte del mondo, tuttavia è anche quella che - forse meglio di altre -  esprime appieno le mille contraddizioni messicane e, in fondo, può essere portata a paradigma di un sistema economico e sociale da cambiare. A livello mondiale, e dalle fondamenta. Appena qualche decennio fa, infatti, Cancun, nello stato di Quintana Roo, era un tranquillissimo centro di pescatori che avevano trovato la loro dimensione in una zona quasi disabitata formata da una duna a forma di sette a due passi dai Caraibi. Un villaggio della penisola dello Yucatan, famosa in tutto il mondo per gli straordinari insediamenti Maya che (a Tulum o a Chiche-itza) resistono imponenti fino ai giorni nostri.
Poco più di trent’anni fa, la svolta repentina: il governo messicano per allentare la pressione su Acapulco decide di fare Cancun in una zona ad alta densità turistica. Bastano pochi anni e l’intera area con le paludi, le spiagge bianche e una vegetazione mozzafiato che si specchia sulla bellissima Isla Mujeres, diventa una città (con più di mezzo milione di abitanti) e si trasforma in una delle capitali mondiali del turismo, meta privilegiata di migliaia di ricconi soprattutto statunitensi e canadesi.


Lo capisci subito, appena scendi dall’aereo, dove ti trovi. Ad accogliere i turisti c’è un clima di festa che si materializza sotto forma di un gruppo di suonatori messicani con tanto di poncho, baffo e sombrero. Appena fuori dallo scalo, è un’invasione di taxi (migliaia girano tutta la città per pochi spicci) e pullman pronti a servire al meglio singoli o intere comitive. Percorrendo i pochi chilometri che separano l’aeroporto dalla città entri subito nel clima del vertice. La città è completamente militarizzata: ci sono decine di posti di blocco, controlli, rallentamenti. E la polizia federale si mostra fiera solcando le strade a bordo di suv Ford che sul retro trasportano cinque uomini in divisa blu armati di mitra rivolti in maniera inutilmente imprudente verso le auto o i pedoni. Quasi inutile precisare quanto sia presidiata la cosiddetta zona rossa, l’area del vertice ufficiale dei governi che – piccola curiosità – si scorge da lontano grazie a una pala eolica (la stessa del vertice di Copenaghen?) che gira a vuoto da giorni e vuole rappresentare il simbolo del cambiamento. Ci sono poi altre cinque zone – tutte lontane tra loro – che Cancun ha destinato al vertice. C’è Cancunmesse, l’area della fiera ufficiale, e Villa climatica, attrezzata dal governo per fare la faccia pulita e dimostrare al mondo il proprio impegno per l’ambiente (assolutamente deficitario per tutta la società civile messicana). Ci sono poi le aree riservate ai tre (!?) controvertici (una novità la divisione, dovuta alle scelte del movimento del Paese ospitante): il Klimaforum delle ong a Puerto Moleros, Dialogo climatico che ha allestito il villaggio a due passi dal palasport della scherma e via Campesina che sta al centro sportivo Canek. Spazi che non comunicano ma che potrebbero trovare nella manifestazione convocata per domani (7 dicembre) un punto di contatto. Per le strade, come sempre in questi giorni, anche Rigas, la Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, tra i protagonisti del controvertice.


Ma se si dovesse indicare la zona di Cancun più interessata dal vertice, forse paradossalmente, si dovrebbe indicare la zona hotelera: una striscia di terra stretta e lunga una manciata di chilometri - che sta in mezzo al mare di Cancun e collegata alla terra ferma da due ponti - su cui sembrano poggiati come giganteschi mattoncini della Lego ben 93 (novantatre!) hotel di lusso alti anche venti piani, casinò (ce n’è anche uno immenso, inaugurato poche ore fa, con fuori in bella mostra il coniglietto di Playboy), discoteche e ristoranti. Costruzioni imponenti che hanno alle spalle l’acqua della laguna con gli approdi per i motoscafi e davanti l’oceano Atlantico. Un unicum impressionante che ha modificato l’ecosistema, l’orizzonte, la stessa identità della città. È qui che alloggia la gran parte delle delegazioni ufficiali del vertice (davanti a ogni porta d’albergo è presente una pattuglia della polizia) ed è qui che lavora una parte davvero consistente della popolazione di Cancun impegnata come cuochi, camerieri, personale di hall, addetti alle pulizie. A questo proposito, i giornali sottolineano che il vertice ha salvato una stagione invernale che rischiava di essere fallimentare dal punto di vista delle presenze (e quindi dell’economia locale). Per la gente comune, l’unica possibilità di respirare la stessa aria dei ricchi.
Mano a mano che dalla zona hotelera ci si sposta verso l’interno, questa città priva di un centro storico diventa la zona residenziale della classe media. Fuori dal centro due diverse realtà: andando verso sud, si trovano decine di resort d’elite, parchi dei divertimenti e campi da golf. Andando invece verso l’interno, verso le sterminate periferie, ci sono i quartieri della stragrande maggioranza della popolazione locale che vive in abitazioni che somigliano più a capanne che a case. È in questa dicotomia che si mostrano tutti i paradossi, la sproporzione tra ricchezza e povertà del sistema economico e sociale messicano (e, in fondo, anche mondiale). Secondo una ricerca pubblicata nel 2006, il Messico – un solo dato può essere significativo in questo senso – è la seconda nazione al mondo, dietro gli Usa, per numero di obesi (il 24% della popolazione). Un dato eloquente sulla situazione generale, che diventa ancora più eclatante se accompagnato da alcune considerazioni. La prima riguarda il sistema sociale: per le strade di Cancun - tra minuscoli carretti di venditori ambulanti di cibo, Coca cola e bevande Nestlé, curiosi infopoint e minimarket - si vede una moltitudine di giganteschi centri estetici, palestre, farmacie e parafarmacie. Solo contarli produce un certo effetto di straniamento. La seconda è esemplificativa di un sistema economico alla deriva: il Messico, per le conseguenze nefaste sull’economia del Nafta (l’accordo di libero scambio firmato nel ‘94 con Usa e Canada), è oggi primo produttore al mondo di mais e, pure, è costretto a importare il 33% del suo fabbisogno.
Su questa problematica situazione strutturale, a Cancun proprio in questi giorni è caduta la tegola dell’allarme rifiuti. E interi pezzi di città somigliano molto alla peggiore Napoli. Molte zone periferiche e persino alcune mete turistiche (il visitatissimo mercato 28) sono letteralmente invase dalla spazzatura e circondate da discariche a cielo aperto. Un colpo ben assestato all’immagine patinata costruita sul lusso degli hotel sottolineato anche da alcuni giornali locali che polemicamente invitano a fare un giro virtuale per Cancun godendosi i cumuli di rifiuti anche attraverso Google Earth. Per questo è alta la tensione contro la società – la Domos Tierra - che ha avuto in concessione (per 37 milioni di pesos messicani) la raccolta dei rifiuti e che mostra tutte le sue insufficienze. Ma è solo una delle tessere del puzzle della precarietà di Cancun, di Quintano Roo e dell’intero Messico. Basti prendere a prestito le parole di Mario Herrera Moro, presidente dell’ordine dei geologi del Messico. Intervenendo al forum Cento proposte concrete per il cambiamento climatico, Herrera ha sottolineato la fragilità del territorio dello Yucatan, denunciato la presenza di discariche abusive e parlato di un sistema fognario al collasso e di corsi d’acqua contaminati. Un quadro ambientale pericoloso che determina un altissimo rischio di esplosioni - superficiali o sotterrane - di gas metano (già avvenute in alcuni villaggi attorno a Cancun) e che mettono a rischio la salute di centinaia di migliaia di persone. Gli ha fatto eco Jose Luis Luege Tamargo, direttore generale della commissione nazionale dell’Acqua: nonostante lo Yucatan sia la regione mondiale con più abbondanza di acqua, ha spiegato, gli abitanti rischiano di non averne più a disposizione. Almeno di quella buona. I veleni delle fabbriche e dei rifiuti accatastati nelle discariche abusive stanno contaminando in maniera irreparabile le falde acquifere e i corsi d’acqua. Con le conseguenze immaginabili per chiunque. È questo il Messico che ospita il Cop 16. Di questo sistema che precipita – qui e altrove - dovrebbero occuparsi i governi del mondo. Per capirlo, è sufficiente guardarsi attorno. Anche nella luccicante Cancun.
5 dicembre 2010

Cancun e il controvertice triplo

DANILO CHIRICO
CANCUN - L’immagine più chiara la fornisce, forse involontariamente, Christina Figueres, la responsabile dell’Onu sui cambiamenti climatici. È il suo pianto a spiegare in maniera eloquente lo stato dell’arte al vertice Cop 16 di Cancun durante il quale i governi di 194 Paesi de mondo sono riuniti per affrontare la crisi ecologica e il riscaldamento del Pianeta. Figueres parla con i giovani che sono venuti al vertice messicano da tutto il mondo e a un certo punto scoppia in lacrime. Dice: «Non importa quale sarà l’accordo – commenta riferendosi all’intesa che potrà uscire dal vertice – perché è comunque pateticamente insufficiente». Introduce anche un elemento di umanità, raccontando di avere due figli di 21 e 22 anni, rivelando il suo sogno di farli vivere in un mondo migliore. Poi si asciuga gli occhi, spiega ai ragazzi che sarà la prossima settimana quella decisiva e chiarisce che non si dà per vinta, che si spenderà fino in fondo per cercare di convincere i governi della necessità di un impegno vincolante per il clima e a salvaguardia della Terra. Non ci crede Christina Figueres e in fondo non ci crede nessuno alla possibilità di un’intesa vera. Sono troppi i segnali negativi: dal fallimento della Cop 15 di Copenaghen alle deludenti attività preparatorie delle riunioni internazionali di Bonn (in Germania) e Tianjin (in Cina). Una situazione sempre più preoccupante, che riguarda tutti e che tutti pensano di risolvere semplicemente non affrontandola come se la crisi ecologica ed economica non fosse già realtà, non fosse già il frutto amaro di un sistema mondiale al collasso.
E stanno arrivando in migliaia a Cancun, da tutte le parti del mondo, a ricordare ai potenti del Pianeta che il sistema mondiale è ormai vicino al collasso, che è necessaria un’assunzione di responsabilità da parte di tutti. In queste ore sono già iniziate le prime proteste: un miniblitz di Greenpeace Messico ha sollevato il caso della zona di Quintana Roo, dell’aggressione delle attività petrolifere e turistiche, gli agricoltori hanno già lanciato l’allarme «ecocidio» a proposito del cementificio costruito nella zona dio Veracruz mentre alcuni movimenti di Cancun sono stati ieri mattina a protestare davanti al municipio. Sono solo le prime avvisaglie. Infatti il movimento ambientalista mondiale è arrivato in forze a Cancun e non mancherà di farsi sentire.


È diviso in tre tronconi, però, il movimento. Per tre controvertici con tre programmi e tre diverse attività (che probabilmente potrebbero trovare qualche punto di contatto in occasione della manifestazione convocata per il 7 dicembre per le strade di Cancun). Il primo dei controvertici è quello dei movimenti dei contadini e delle vittime ambientali che fanno capo a Via Campesina. Nel villaggio allestito nello stadio della città sono arrivate tre carovane – organizzate da Via Campesina e dell’Assemblea nazionale delle vittime ambientali (un’organizzazione che raccoglie centinaia di vertente ambientali messicane) - partite il 27 novembre e che hanno attraversato i luoghi simbolo del Messico convogliando i movimenti studenteschi e dei lavoratori. La prima carovana è partita da San Luis Potosì per denunciare la presenza di una miniera a cielo aperto che dovrebbe fare la ricchezza del territorio e invece, naturalmente, è un concentrato di veleno per il terreno e le falde acquifere. La seconda carovana è quella di Salto, luogo altamente contaminato per la presenza di un gigantesco polo industriale e di una discarica di ben 71 ettari che non rispetta nessuna norma di sicurezza. Alle carovane di via Campesina ha partecipato anche una delegazione italiana di Rigas (Rete italiana per la giustizia ambientale e sociale, che raccoglie oltre 60 organizzazioni da nord a sud). Via Campesina ha organizzato anche mobilitazioni dei movimenti di agricoltori in ogni parte del mondo «per creare migliaia di Cancun», mentre altre due carovane autonome sono partite in segno di solidarietà da Oaxaca e dal Chiapas. Il secondo troncone del movimento è quello di Dialogo climatico (che si riunisce in un villaggio allestito a due passi dal palasport della scherma), una realtà composta da centinaia di associazioni e comitati di base provenienti da ogni parte del mondo, che ha a cuore le sorti del Pianeta e che organizza un fitto programma di confronti e dibattiti sulla crisi ecologica mondiale provando anche a declinarla nelle realtà nazionali e locali. Il 5 dicembre uno dei panel principali – promosso da Rigas - è dedicato all’Italia e alla crisi (che naturalmente non è soltanto quella politico-parlamentare di questi giorni) del nostro Paese nell’era di Berlusconi. Significative rappresentanze italiane sono presenti anche nel terzo troncone del movimento ambientalista che dà vita al controvertice Klimaforum che ha trovato la sua sede nella zona di Puetro Morelos. Ci sono le delegazioni di numerose associazioni e ong tra cui Legambiente, Wwf e Greenpeace che s’è già fatta notare per la presenza della sua nave e perché il 29 novembre in apertura del forum ha lanciato un gigantesto pallone aerostatico nei cieli dell’antica città Maya Chichenitza con la scritta inequivocabile “Rescue the Climate”. 


In questo clima si svolgono i lavori della Cop 16. Con il cuore e la mente che sta dentro i controvertici e l’economia che guida le scelte dei governi. Che sono a Cancun, ma che già puntano al Cop17 del prossimo anno a Johannesburg. A meno che le lacrime di Christina Figueres non facciano il miracolo.
4 dicembre 2010
Pubblicato sul quotidiano Terra