venerdì 28 gennaio 2011

Giuseppe Gagliardi, regista che racconta Tatanka

Il regista calabrese Giuseppe Gagliardi ha un film in uscita “Tatanka scatenato”, ispirato a un racconto di Roberto Saviano. È lui il sesto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento - collettivo e individuale - sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.


DANILO CHIRICO
«Il Sud è il luogo che se tutto funzionasse sarebbe un paradiso». Alla domanda su cos’è oggi il Sud, non esita neppure un attimo. Aggiunge un attimo dopo: «Il problema è il fatto che non funziona quasi nulla». Giuseppe Gagliardi ha 33 anni, è un regista e sceneggiatore calabrese. Che vive altrove, come molti suoi coetanei, come molti che hanno deciso di fare cinema («in Calabria sarebbe impossibile», precisa).
«Potenzialmente – sottolinea – al Sud ci potrebbe essere tutto». E invece «da 150 anni questo pezzo d’Italia è rimasto schiacciato da dinamiche politiche inquietanti: nel processo di unificazione c’è stata la volontà storica di ridurlo così, la volontà precisa di trasformarlo in un luogo in cui tutto va in malora. Nella periferia dell’impero». Una realtà «che fa male, ma che è così». Che va spiegata, «raccontata», dice. E il riferimento non può che essere al fortunatissimo libro di Pino Aprile, “Terroni”.
Non tutto dipende dagli altri, però. Anche i meridionali, i calabresi devono fare la propria parte. Da questo punto di vista Giuseppe Gagliardi introduce una punta di ottimismo attraverso un elemento generazionale: «C’è un dato interessante in Calabria nell’ultimo periodo: un dato anagrafico. Ha preso il potere un gruppo di quarantenni, finalmente una generazione che sa cos’è una email, Skype o un motore di ricerca». Gagliardi si riferisce al nuovo presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti (classe ’66) e ai suoi più stretti collaboratori (peraltro da lui indicati, la vicepresidente Antonella Stasi, anche lei del ’66, l’assessore al Bilancio Giacomo Mancini che ha 37 anni). Una cosa significativa, per il regista cosentino, che naturalmente dovrà «essere supportata dai fatti sui quali dare il nostro giudizio politico».
È importante, fondamentale il ruolo della classe dirigente di un territorio, la capacità di cogliere i cambiamenti, di capire i processi, di instaurare un rapporto chiaro e utile con i cittadini. Per spiegarlo il regista ricorre a un’esperienza personale: Saracinema. È un festival cinematografico pensato e organizzato da Gagliardi per Saracena, un incantevole borgo (a rischio abbandono) che sta in provincia di Cosenza, a metà strada tra il Pollino e il mar Tirreno. È il 2006 quando nasce questa esperienza, che ha almeno due importanti caratteristiche: la prima è che il cinema sta dentro il paese, lo attraversa, lo trasforma in una grande sala, in una grande casa di produzione, in una grande platea, in un luogo pieno di osterie, suoni e immagini. L’altra è che il festival offre a trenta giovani (calabresi e non) l’occasione di incontrare faccia a faccia registi, autori e produttori altrimenti difficili da incrociare. Un’idea affascinante e concreta. Una buona pratica, soprattutto per un territorio che ancora non ha un vero festival del cinema. «In tre anni Saracinema era cresciuto, era diventato una bella realtà – sottolinea - Poi ci siamo scontrati con la realtà, con la politica che ha deciso di non seguirlo più, di non sostenerlo. E dopo alcuni anni di grandi sacrifici siamo stati costretti a lasciare stare». Occasione mancata, l’ennesima per la Calabria. Una situazione paradigmatica per la regione in punta allo Stivale che probabilmente è alla base di uno degli elementi più tristi: «l’esodo continuo, da oltre 50 anni, di tutti i cervelli più interessanti della regione. Costretti ad andare via, e che trovano le loro occasioni migliori lontano da casa». Attacca Giuseppe Gagliardi: «È questo il risultato di un sistema fatto di assistenzialismo e clientelismo». E invece no, invece «i cittadini devono avere l’opportunità di realizzare i loro progetti. Se questo accade, possono succedere cose interessanti».
Gagliardi è un calabrese che fa cinema, ma non fa cinema in Calabria. «Fino a oggi non è stato possibile realizzare un film, anche se mi piacerebbe molto», sottolinea. Così un regista che viene premiato al festival di Nanni Moretti con il Sacher d’argento (nel 2003 con il corto Peperoni), che riceve un premio al Torino Film Festival (con il documentario musicale Doichlanda, ancora nel 2003), che con il suo primo lungometraggio “La vera storia di Tony Vilar” partecipa a festival come quello di Roma (nel 2006) e il prestigiosissimo Tribeca di New York (nel 2007) alla fine si trova a constatare che «continua a valere il detto “nemo propheta in patria”», che il cinema per la Calabria è un poco più di un ufo. Eppure la storia di Tony Vilar, l’emigrante calabrese Antonio Ragusa partito nel 1952 alla volta dell’Argentina e diventano famoso in tutto il mondo con il brano “Quanto calienta el sol”, era un film «legato alla riscoperta di una certa calabresità, una certa italianità tra Buenos Aires e New York». Anche questo progetto «non ha mai avuto un sostegno reale», commenta.
Quello che non si capisce in Calabria, secondo Gagliardi, è che anche «la cultura è un’industria»: il prodotto artistico e culturale «va inteso come qualcosa da mettere a disposizione per fare crescere il territorio». Altre regioni lo hanno capito: «In tutti i posti è difficile fare il cinema, ma alcune cose interessanti altrove cominciano a muoversi», dalla Puglia fino alla Basilicata.
La verità è che «dove una cosa funziona, per riflesso funzionano anche le altre», chiarisce. E spiega: «Se in Salento funziona il turismo, anche il resto va bene. Ora – aggiunge - spero che in Calabria la nuova film commission faccia delle cose buone e utili al cinema e al territorio». È un problema di scelte politiche e imprenditoriali, «è un problema di spazi, di luoghi, di opportunità dove poter esprimere e fare crescere le creatività». Se ci fossero gli spazi, insiste, «centinaia di ragazzi avrebbero la possibilità di fare il cinema. Ci dovrebbe essere un supporto concreto, almeno nella diffusione».
Probabilmente è proprio per questa serie di ragioni che la Calabria «è raccontata poco e male – aggiunge il regista - mi pare che sia l’unica regione, insieme al Molise, che non ha nessun tipo di letteratura scritta, visiva o cantata. Forse è dovuto anche al fatto che in Calabria c’è una sorta di esterofilia che non riesce ad apprezzare quello che ha». Ma c’è di più, e ritorna il ruolo della classe dirigente: «Ogni anno ci sono 25mila premi organizzati a beneficio dei calabresi nel mondo o robe di questo tipo, che servono a organizzare serate per politici e vescovi e a nient’altro», attacca. Nessuna programmazione, nessuna idea. «Invece – rimarca - con gli stessi soldi si potrebbero fare cose molto concrete per far crescere professionalità artistiche e culturali». Ecco perché «purtroppo non c’è uno scrittore di riferimento che non sia defunto, non c’è un cinema preciso, non c’è una band». Un esempio? «Peppe Voltarelli ha vinto il premio Tenco come miglior album in dialetto. Chi lo sa in Calabria? chi vuole valorizzare questa esperienza?».
È anche per questo che Gagliardi ha deciso di girare il suo nuovo film in Campania, a partire da un racconto scritto da Roberto Saviano. Il film si intitola “Tatanka scatenato”, racconta – senza stereotipi - una storia di un riscatto di un gruppo di giovani di Marcianise, in provincia di Caserta. Un gruppo di giovani uniti dal sangue e dal sudore del pugilato, che hanno nel vicecampione olimpico Clemente Russo il loro rappresentante più famoso. «È stata un’esperienza molto forte, interessante – racconta Gagliardi - Un film , girato tra la Campania e Berlino che ha un tono neorealista, girato con molte parti in dialetto, con buona parte degli attori presi dalla strada. È stato interessante conoscere e sviscerare le dinamiche sociali del Sud». L’uscita in sala è prevista per marzo, con 200 copie. Un ottimo numero. «Siamo molto contenti perché sono numeri significativi rispetto a quello che accade in questo momento nel cinema italiano». Una grande opportunità. «Abbiamo fatto una proiezione privata con Roberto Saviano: il film gli è molto piaciuto, spero che ci dia una mano a promuoverlo». L’occasione di fare il salto di qualità, magari in attesa di fare un film in Calabria «perché bisogna parlare di quello che si sa». Nel frattempo, con determinazione, continuare il proprio percorso. Da calabrese che fa cinema: «La cosa bella è che il bagaglio culturale, di ironia, di apertura sono cose che ti porti dietro. Sempre, che puoi esprimerlo nelle tue cose». Dovunque tu sia.

martedì 18 gennaio 2011

Il fotoreporter Luciano Ferrara

Il fotoreporter napoletano Luciano Ferrara è il quinto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento - collettivo e individuale - sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.

DANILO CHIRICO
«Terra di sperimentazione e sofferenza». È una definizione bella, suggestiva e convincente quella che Luciano Ferrara usa per descrivere il Sud del nostro Paese. Terra capace di grandi innovazioni, spesso costretta a pagare un prezzo alto, «come nel caso dell’Unità d’Italia che stiamo festeggiando proprio in questi mesi», precisa subito. «Il Mezzogiorno ha dato un grande contributo all’Unità – spiega – e anche al Nord. Non vorrei dimenticare che i “nordisti” oltre alle braccia meridionali si sono portati a casa le casse piene di denari. Se non lo diciamo, non capiamo in che Paese viviamo».
Luciano Ferrara è un fotoreporter napoletano di fama internazionale. Che sta da sempre tra la gente, dentro la società, dentro le trasformazioni sociali e culturali. Ha attraversato il movimento operaio e quello per la pace di Comiso, ha immortalato la guerra del Golfo e le bombe in Libano, ha scoperto il movimento dei disoccupati napoletani e raccolto il volto dei “femminielli”, ha raccontato come pochi Napoli e la Campania. Ha uno sguardo personale, originale sui fenomeni meridionali. Utile a cogliere l’essenza dei cambiamenti. «Innanzitutto bisogna dividere la parte politica dalla parte sociale», premette. E spiega: «In politica, a parte piccole cose in Puglia, non ci sono grosse novità in questo momento». Ben diverso il discorso nei movimenti sociali, «che sono vivi, fatti di giovani e che sanno fare proposte». Che si scontrano con un limite: «Non riescono a stare in rete tra loro e soprattutto a trovare un collegamento con il resto dell’Italia». Che non hanno memoria di ciò che è stato: «La mia generazione, quella degli anni Settanta – chiarisce – ha sperimentato molte cose di cui oggi purtroppo non è rimasta traccia». Colpa di chi dimentica, colpa anche «delle istituzioni che hanno completamente cancellato questo protagonismo». Luciano Ferrara denuncia cioè la distruzione «del laboratorio stradale». Napoli «è la città del teatro, della musica, di molte altre cose – sottolinea – e questo è accaduto perché in quello che io chiamo il laboratorio stradale, nei sotterranei, nel retroterra c’era una sperimentazione forte, c’era lo spazio per fare crescere le sensibilità». Le istituzioni hanno cancellato tutto, secondo Ferrara. «La colpa della politica, anche di quella di centrosinistra, è stata puntare tutto sui grandi eventi e non fare crescere quello che si muoveva dentro Napoli», sotto Napoli. La vera ricchezza culturale di una città straordinaria. L’avvento della destra alla Regione ha fatto il resto: «Hanno fatto un taglio drastico sulla cultura». C’è stato immediatamente un cambio al vertice al teatro Mercadante e «un museo importantissimo a livello mondiale come il Madre ha avuto una riduzione del budget a un milione e mezzo di euro. Pochissimo. Un vero e proprio attacco alla cultura dovuto soltanto alla necessità di liberarsi di 15 anni di potere di Bassolino. Senza alcun progetto». Lo dimostra anche il caso del teatro Trianon diretto da Nino d’Angelo, oggi incomprensibilmente chiuso.
C’è la possibilità di invertire la rotta. Una possibilità gigantesca che si chiama Forum internazionale delle culture, un grande evento che dopo Barcellona arriverà a Napoli nel 2013: «È una grande occasione – sottolinea Ferrara – arriveranno milioni e milioni di euro, venti milioni di visitatori. C’è la possibilità di cambiare il volto della città». Ma la domanda «che ci dobbiamo porre è: che cosa vogliamo mostrare? Qual è l’indirizzo culturale?». Una proposta Ferrara, insieme a un gruppo di fotografi, l’ha fatta: «Lavorare sulla memoria storica del nostro territorio con una grande mostra fotografica che racconti Napoli dal 1900 a oggi, per mostrare i cambiamenti della società, dell’economia e così creare un grande archivio storico». Una traccia significativa dei mutamenti sociali negli ultimi decenni sta già nell’archivio di Ferrara. Che nota differenze sostanziali tra ieri e oggi: «Ho sempre usato la fotografia in senso culturale e politico – dice – e oggi avverto prima di tutto è il disincanto, la disillusione, il disinteresse nei confronti della politica militante. La partecipazione attiva è azzerata – insiste il fotografo – e i pochi che si impegnano sono considerati un fastidio. Un’idea triste che s’è andata affermando in un processo che è iniziato da vent’anni e che ha certamente tra i responsabili la televisione e il mondo dell’informazione».
Non è un pessimista Luciano Ferrara: «Non tutto è perso – riprende il suo ragionamento – al Sud c’è un grande fermento e bisogna ripartire presto. Dalle piccole cose, dalle istanze delle minoranze, dai bisogni». Ovviamente facendo conti con i cambiamenti per «capire quali sono i nuovi bisogni e indagare il modo migliore per affrontarli ».
C’è poi un'altra grande questione: il racconto del Sud di oggi. «La grande stampa usa il suo format, racconta la sua storia – accusa – mentre chi indaga davvero sul territorio spesso ha soltanto internet». Conta certamente, in questa analisi, «l’indirizzo assunto dall’industria culturale e gli assetti proprietari, contano i mezzi a disposizione, ma forse conta anche che è cambiato l’approccio degli artisti, degli intellettuali che fino agli anni Ottanta hanno raccontato bene il Sud e che adesso invece segnano il passo». Fa un esempio: «A teatro dopo Mario Martone e il suo Tango glaciale del 1982 che cosa c’è stato?». Non vuole mancare di rispetto a nessuno, sottolinea Ferrara. Semplicemente gli preme dire che «oggi siamo un po’ fermi». Mancano le idee, gli intellettuali («che hanno il compito di promuovere cose nuove», precisa) sono silenti «ed è cambiato anche lo spirito: una volta pur di fare un lavoro ci si impegnava le auto. Adesso questa cosa non la farebbe più nessuno». C’è anche un ruolo negativo svolto dalla politica, che costringe «i migliori a partire» e spesso chi va via non mantiene «un filo politico e culturale con il territorio di provenienza». Il risultato è che oggi «si fa cultura davvero a Londra o a Berlino: è lì che si racconta non qui». Questa idea del racconto, questo spirito dell’innovazione, la sperimentazione nel «laboratorio stradale». Tutto questo manca. Una mano può darla il Forum della cultura del 2013, l’altra bisogna darsela da soli. Ferrara ha aperto il suo studio fotografico alla nuova generazione di fotografi napoletani. «Credo sia giusto mettere a disposizione la mia esperienza. Per far imparare il mestiere, certo. Ma anche per insegnare a campare con la fotografia. Che altrimenti fare belle foto non serve a niente». Commenta soddisfatto: «I frutti che stiamo raccogliendo sono davvero buoni». Concreta arte partenopea.

danilochirico@dasud.it

BOX MUSEO MADRE
«La verità di Napoli è destinata per ragioni addirittura antropologiche ad apparire come qualcosa di straordinario, nel bene e nel male. E la fotografia sembra in grado di registrare meglio e più di altri linguaggi creativi ciò che tutti i visitatori sanno per esperienza, e cioè che in questa città accade molto spesso il miracolo di incontrare una realtà che, se arriva alla verità, è sempre per eccesso». Si presenta con questo incipit la mostra “‘O vero”, una collettiva di venti fotografi napoletani allestita al museo Madre di Napoli (www.museomadre.it) a cui partecipa anche il fotoreporter Luciano Ferrara. Racconta: «È la prima volta che una mostra fotografica entra in questo museo – sottolinea – siamo molto felici di esserci. E di raccontare con le immagini le trasformazioni di Napoli». Un grande risultato: «Va detta una cosa però: la fotografia purtroppo è quella che svela i problemi. Ci hanno chiamati – insiste – solo quando non c’erano più soldi. È giusto esserci, sostenere il progetto e dare il proprio contributo. Ma la fotografia va rispettata di più».


Ulderico Pesce e i nuovi briganti

È l’attore e autore teatrale lucano Ulderico Pesce il quarto protagonista di “Creatività meridiane”, il ciclo di incontri di Danilo Chirico con intellettuali, artisti, politici, semplici cittadini meridionali che hanno piccole e grandi esperienze da raccontare alla ricerca di nuove idee, memorie disperse e buone pratiche. “Creatività meridiane” è un tentativo di fare un racconto autentico del Mezzogiorno, un modo di provare a scrivere parole inedite sul Sud, un contributo a un ragionamento - collettivo e individuale - sempre più urgente: ricostruire un’originale identità meridionale. In un Paese davvero unito.


di DANILO CHIRICO

Ha lavorato con Giorgio Albertazzi e Carmelo Bene, Luca Ronconi e Gabriele Lavia. Ne va fiero. Poi ha scelto la sua strada, quella che gli aveva indicato suo nonno che di che di mestiere faceva l’arrotino e che raccontava con un talento naturale le cose del passato. Storie vere, difficili, che lo riempivano. Quando è partito per Roma per studiare, alle pareti della sua stanza nel quartiere San Lorenzo ha appeso la foto di suo nonno. Come monito, forse. Come modello, ispirazione. È per questo che ha scelto di stare sul palcoscenico per raccontare la realtà. Di lavoratori sfruttati, di operai senza diritti, di cittadini che si ammalano. La realtà del nostro Paese, del nostro Mezzogiorno.
Ulderico Pesce è nato e vive in Basilicata. È un uomo di teatro – autore, attore e regista – che, per dirla con il grande critico del Corsera Franco Cordelli, recita come se stesse «seduto a un tavolo con ciascun spettatore». Uno che quando gli parli ti guarda negli occhi, racconta, si infervora, spiega e maledice. E non ha peli sulla lingua, nella vita come negli spettacoli. Così quando gli chiedi di partecipare al ragionamento del Domenicale di Terra sulle nuove creatività e identità meridionali, lui accetta volentieri. E dice subito: «Parlo anche da semplice cittadino». E dice subito: «Il Sud oggi è esattamente come quello di fine Ottocento: nulla è cambiato nel rapporto tra territorio, cittadini e Stato». Il paragone suona forte, ma l’attore lucano aggiunge subito: «Eravamo colonizzati dai Savoia nel 1861 e lo siamo oggi. Allora – sottolinea – lo Stato approfittò delle risorse energetiche, agricole e naturalistiche del nostro Sud lasciando la popolazione e interi pezzi di territorio sprovvisti di Stato, di quell’elemento terzo capace di assicurare giustizia e dignità, equità e diritti ai cittadini. Oggi non è diverso: lo Stato non c’è». Non si ferma qui il ragionamento di Ulderico Pesce. «Ho vissuto tutto questo sulla mia pelle – racconta – sono felice di avere una madre che è stata una bracciante agricola, ma mia madre avrebbe voluto studiare e non ha potuto. Questa è l’impronta di un’ingiustizia che hanno vissuto in tanti nel nostro territorio – insiste - e che la politica, che ha reso legale l’illegalità, non fa nulla per cambiare. Vale per la destra e per la sinistra in egual misura». Torna all’idea dello sfruttamento del Nord nei confronti del Sud, dell’abbandono dello Stato. E fa due esempi («mi piace parlare di cose concrete», dice). Il primo riguarda il Ponte sullo Stretto: «Noi meridionali non ne sentiamo il bisogno, non lo vogliamo, la nostra stessa cultura è contraria – sostiene – eppure il nostro ambiente e territorio vengono sacrificati per regalare un grosso affare a una grande impresa del Nord». E poi la Basilicata: «Bossi parla sempre di federalismo – dice – e allora parliamone con i fatti. Il nostro territorio ospita tre grandi multinazionali: l’Eni in Val d’Agri, dove estrae il 60% del fabbisogno nazionale di petrolio, la Coca Cola nel Volture, dove usa la nostra acqua, e la Fiat a Melfi». Bene, secondo Pesce, sono «tre grandi realtà che colonizzano il territorio e lo deturpano lasciando la fame alla Basilicata». Tanto che ogni anno a causa dell’emigrazione è come se sparisse «un paese di 15mila abitanti». E i lavoratori continuano a restare «senza diritti»: «Alla Fiat – attacca – ancora oggi non c’è il medico dopo le 18, come avviene in tutte le fabbriche d’Europa» e infatti «lo scorso aprile un operaio è morto per un semplice principio di infarto». Un prezzo che la Basilicata paga, senza avere nulla in cambio: «Queste tre grandi aziende le tasse le pagano altrove: parliamo di questo quando parliamo di federalismo fiscale».
La risposta a tutto questo sta nel brigantaggio, dice Ulderico Pesce. «Sono fiero di essere nato in Basilicata, il posto in cui il fenomeno è stato più forte», rivendica. «La risposta sta in una nuova forma di brigantaggio – sottolinea – quello dei movimenti che qui al Sud sono vivi e difendono il territorio e chiedono diritti. Movimenti che devono essere autonomi dalla politica – insiste – ma che devono organizzarsi e darsi una forma per cambiarla, contaminarla», per entrarci insomma con le proprie parole d’ordine. «I movimenti sui territori devono diventare forza politica – rimarca l’attore lucano – senza leaderismi, ma senza perdere altro tempo prezioso: in questo Paese la gente perbene sta all’opposizione e deve potersi esprimere». I riferimenti vanno trovati nella letteratura e nella poesia. Rocco Scotellaro, innanzitutto. «Un poeta contadino – lo ricorda Ulderico Pesce che sul suo lavoro e della poetessa Amelia Rosselli ha anche costruito uno splendido spettacolo “Contadini del Sud” – un sindaco, un occupatore delle terre. Diciamo che è stato un politico con un’impostazione poetica e un poeta con una coscienza politica: un vero punto di riferimento». E poi Corrado Alvaro, «il Pirandello delle novelle dei primi del secolo di Ciaula scopre la luna», il poeta suicida Franco Costabile «che amo molto e che ho sentito citare ai ragazzi del movimento ambientalista di Amantea». Prova a tenere insieme tutto questo mondo Ulderico Pesce con il suo lavoro, nella scrittura e nella scena. Lo spiega in maniera appassionata: «Ho scelto di fare questo teatro per due ragioni: una artistica e una psicologica». La prima «riguarda i miei studi». Un giorno al teatro Ateneo della Sapienza a Roma Ulderico Pesce incontra Anatoli Vassilev che lo porta a Mosca. Si ferma lì più di tre anni a studiare e praticare «un teatro semplice, povero, strutturato sulla verità e sulla necessità delle emozioni», a lavorare sul Metodo Stanislavskij «secondo il quale un attore deve essere sempre vero, credibile. Tutto il contrario della tradizione artificiosa del teatro italiano». Così tra il teatro italiano «e mio nonno che faceva l’arrotino, ho scelto mio nonno e i suoi racconti. Prima li ho portati in giro in Basilicata – racconta – poi ho capito che interessavano anche a Roma o a Milano». Così ha trovato il suo linguaggio Ulderico Pesce. Poi la ragione psicologica: l’ingiustizia di vivere al sud, «rabbia e la voglia di riscatto che mi sentivo dentro». E poco importa se stare al Sud e fare il suo lavoro è più difficile: «Ho fatto le cose per istinto e non per calcolo – dice – So bene che è molto più complicato, che ci sono poche strutture in mano sempre alle stesse persone». Eppure, rimarca, «sono felice di essere radicato al sud, di fare qui i miei laboratori e avere qui il mio archivio». Insomma, «al sud c’è più humus per il mio lavoro, più anima, più materia emotiva per la scrittura – confessa Pesce – e poi qui il mio lavoro ha più senso». Si spiega così: «Al nord non si può salire sugli alberi perché ti prendono per matto. Io qui appena posso ci salgo, e mi sento parte di questo mondo». Eccola l’anima del Sud, «la forma mentale di essere Sud», secondo Ulderico Pesce. E allora «io voglio rendere un po’ più Sud anche il Centro e il Nord».

danilochirico@dasud.it

Terra, 9 gennaio 2011

BOX

È il novembre del 1878 quando Giovanni Passannante, giovane cuoco della Basilicata, vende la propria giacca per otto soldi per comprare un coltello. Vuole uccidere il Re d’Italia, Umberto I. Non ci riesce, gli procura solo qualche graffio. Viene però condannato a morte, poi graziato e spedito in una cella del carcere dell’isola d’Elba che sta sotto il livello del mare: qui si ammala e inizia persino a mangiare i suoi escrementi. Viene poi mandato a finire i suoi giorni in un manicomio criminale. Muore nel 1910. Gli viene negata la sepoltura e il suo cranio viene esposto nel Museo Criminologico di Roma.
Da allora Passannante finisce nel dimenticatoio, fino a quando Ulderico Pesce non si mette in testa di avviare battersi per dargli una degna sepoltura. Vince: nel 2007 i resti di Giovanni Passannante vengono portati e sepolti a Salvia di Lucania, il suo paese d’origine. Un paese che nel frattempo ha cambiato nome e ancora oggi si chiama “Savoia di Lucania”.
Questa incredibile storia Ulderico Pesce l’ha raccontata in un fortunatissimo spettacolo (che ha girato importanti festival in tutto il mondo) dal titolo “L’innaffiatore del cervello di Passannante: l’anarchivo che cercò di uccidere Umberto I di Savoia”. E oggi è diventata un film, “Passannante”, per la regia di Sergio Colabona, nel quale insieme a Ulderico Pesce recitano il cantante dei Tetes de Bois Andrea Satta, Bebo Storti, Roberto Citran e molti altri artisti. Il film è stato selezionato per il Bari International Film e Tv Festival diretto da Ettore Scola e Felice Laudadio (22 - 29 gennaio) che sarà presentato domani (10 gennaio) alla Casa del cinema di Roma.

lunedì 17 gennaio 2011

Mammasantissima, ascolta la prima puntata

Ascolta qui (in podcast, dal sito di Radio Popolare Roma) prima puntata di Mammasantissima, la trasmissione antimafia di Danilo Chirico in onda ogni domenica su Radio Popolare Roma.


Un ricordo di Libero Grassi, a vent'anni dalla pubblicazione della sua lettera "Caro estortore" sul Giornale di Sicilia con cui dichiarava la sua guerra ai clan, un'intervista al presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello per ragionare di mafia, politica e imprenditoria, l'esempio antimafia dell'educatore pacifista Danilo Dolce. E la rassegna stampa con le storie di mafia e antimafia della settimana.

giovedì 13 gennaio 2011

La "prima" di Mammasantissima

Parte domenica mattina alle 11 sui 103.3 di Radio Popolare Roma "Mammasantissima - Pizzini radiofonici contro le mafie", la trasmissione di Danilo Chirico che racconta Storie, inchieste e personaggi dei clan e di chi li combatte.


Qui, sul sito della radio, trovate la presentazione. Da lunedì il programma si può ascoltare il podcast su Radiopopolareroma.it e su dasud.it. Tutti i materiali e gli approfondimenti saranno invece su questo blog.
Ecco intanto il logo della trasmissione, ideato da Luca Salici. La sigla è dei Popucià.

sabato 8 gennaio 2011

Mammasantissima alla Radio

C'è una novità nel 2011: parte la mia nuova (la prima) trasmissione radiofonica. Si intitolerà "Mammasantissima - Pizzini radiofonici contro le mafie", andrà in onda su Radio Popolare Roma - Popolare Network ogni domenica alle 11 del mattino. Si comincia il 16 gennaio. Ogni settimana racconteremo storie, inchieste e personaggi sui clan e su chi li combatte. Con ospiti importanti (e che hanno qualcosa di interessante da dire), le notizie della settimana (soprattutto quelle importanti che sono state sottovalutate dai grandi media), buona musica (che sceglierò io privilegiando le produzioni minori) e uno spazio dedicato alle creatività e all'impegno al servizio dell'antimafia. Un bell'esperimento.


Stiamo lavorando per mettere a punto il programma. Oggi, insieme al direttore della radio Marta Bonafoni, abbiamo ultimato la sigla - un bellissimo regalo di Pasquale Grosso e Giovanni Cultrera della Popucià Band - e lo spot che andrà in onda in radio da martedì.
Su questo blog - insieme al sito della radio e, probabilmente, di daSud - sarà possibile ascoltare la trasmissione in podcast. Qui, inoltre, troverete le anteprime, i testi e i materiali relativi ad ogni trasmissione. Mammasantissima ha una email: mammasantissima@dasud.it.

venerdì 7 gennaio 2011

Presentazione Dimenticati a Tor Vergata


Prima presentazione all'Università per il libro "Dimenticati". Saremo il 26 gennaio a Tor Vergata, a Roma, grazie all'associazione Mediapolitika.


Ecco il comunicato stampa. 
ROMA, 26 GENNAIO: A TOR VERGATA L’INCONTRO
“CONTROMAFIE – LEGALITA’ E INFORMAZIONE IN TERRE DI MAFIA”

L’associazione culturale Mediapolitica e l’associazione daSud, in collaborazione con il coordinamento Libera Roma organizzano l’incontro: “Contromafie – Legalità e libera informazione in terre di mafia".
L’appuntamento è per mercoledì 26 gennaio 2011, alle 10, presso l’aula Moscati della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma Tor Vergata. L’incontro si aprirà con la presentazione del Rapporto 2008-2010 dell’Osservatorio Ossigeno per l’Informazione della Fnsi e dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, a cura di Alberto Spampinato. Seguirà il ricordo di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso il cinque settembre scorso, con la testimonianza di Dario Vassallo.
Infine, proiezione dei booktrailer e colloquio con gli autori dei libri: Dimenticati, di Danilo Chirico e Alessio Magro; Zagare e sangue. L’informazione è Cosa Nostra, di Vincenzo Arena. Sono stati invitati gli studenti e i docenti dei corsi di laurea triennale in Scienze della Comunicazione e magistrale in Informazione e Sistemi editoriali della Facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata e gli studenti delle scuole superiori dell’VIII e X Municipio di Roma.


Contatti:
www.mediapolitika.com/contromafietorvergata
email: redazione.mediapolitika@gmail.com
evento Facebook: Contromafie – Legalità e libera informazione in terre di mafia

giovedì 6 gennaio 2011

Rosarno, Lucarelli racconta

Anche daSud e Libera Piana nel racconto di Lucarelli sui fatti di Rosarno. Con le interviste a don Pino Demasi e me.

L'anniversario dei fatti di Rosarno

La rete Radici ha elaborato un dossier sui dati del monitoraggio che questo autunno daSud, con Action, Libera Piana e Tenda di Abramo hanno svolto nelle campagne di Rosarno. I risultati sono purtroppo negativi. Ecco l'anticipazione del dossier.





UN ANNO DOPO
introduzione


Cortei, assemblee, sit-in, dossier, tavoli istituzionali. È un cammino di impegno e mobilitazione costante quello che, a un anno dalla rivolta dei braccianti africani  del 7 gennaio 2010, ci ha portato ancora nella Piana per capire se e cosa fosse cambiato rispetto al drammatico scenario di diritti negati e sfruttamento denunciato dai fatti di Rosarno. Lo abbiamo fatto scegliendo la strada della rete, provando a far camminare insieme competenze diverse e diversi linguaggi, intrecciando la battaglia vertenziale per la regolarizzazione dei lavoratori africani con quella della giustizia sociale e di una nuova identità del Sud, facendo dialogare Roma e Calabria, convinti che la complessità dei problemi imponesse una risposta complessa. Con questo spirito Action - diritti in movimento, daSud onlus, Libera Piana e Tenda di Abramo hanno promosso nel novembre 2010 una campagna di monitoraggio delle condizioni di vita e lavoro degli stagionali africani impiegati nelle campagne della Piana, ponendosi l’obiettivo di fornire strumenti di conoscenza ed analisi utili all’attivazione di interventi mirati ed efficaci. Tra Rosarno, Rizziconi, San Ferdinando e Gioia Tauro abbiamo visitato casolari abbandonati e appartamenti in affitto, organizzato assemblee, censito duecento braccianti e dialogato con altrettanti migranti africani. Abbiamo incontrato istituzioni e associazioni, incrociato disponibilità a condividere pezzi del percorso e a costruirne, insieme, degli altri. Trovando apertura e sensibilità in organizzazioni come la Cgil di Gioia Tauro ed enti di volontariato come la Caritas di Drosi.
Il dossier RADICI\rosarno intende fotografare questo cammino, mescola necessariamente più voci e punti di vista, e prova ad offire, insieme con i risultati del monitoraggio, proposte per voltare davvero pagina. Perché, se una cosa il monitoraggio ce l’ha detta chiaramente, è che dopo i fatti di Rosarno tutto è cambiato, ma nulla è veramente cambiato.
reteRADICI\rosarno




UNA VERTENZA MERIDIONALE
l’idea della rete, il monitoraggio, la mobilitazione


La rivolta di Rosarno è un punto di svolta: c’è un prima e un dopo. Con il dossier “Arance insanguinate” di daSud e Stopndrangheta.it si è indagato sulla genesi di fatti che non hanno precedenti nella storia repubblicana, si è ripercorso un ventennio di morti dimenticati e persecuzioni razziali, sfruttamento nei campi e miopi politiche emergenziali, clientelismo agrario e disinteresse delle istituzioni locali e centrali. Cause profonde ed episodi scatenanti. Messo un punto fermo sul “prima”, è sul “dopo” che ci siamo interrogati. Con una sola certezza: le facili generalizzazioni che assegnano patenti di razzismo e mafiosità a intere comunità sono inutili e dannose, ma al tempo stesso parole come accoglienza, diritti e inclusione vanno riempite di fatti concreti. Ancora tutt’altro che dimostrati.
All’indomani della rivolta del 7 gennaio 2010 tra Roma, Caserta, Reggio Calabria e Rosarno una rete informale di associazioni, movimenti, organizzazioni sociali e politiche ha intrapreso una intensa mobilitazione per la tutela dei migranti deportati dalla Calabria. Una lotta appassionata che ha dato vita a un percorso vertenziale per il riconoscimento del diritto di soggiorno degli africani provenienti da Rosarno. A riflettori spenti, l’impegno è proseguito e prosegue ancora.
Ma quello di Rosarno è solo uno dei nodi della rete, una delle tappe obbligate dell’esercito dei nuovi schiavi impiegati nelle nostre campagne. In Campania come in Sicilia, a Palazzo San Gervasio in Basilicata come a Foggia in Puglia, i migranti vivono la stessa condizione. Anzi di più: sono proprio gli stessi volti, le stesse braccia, due-tremila di campesinos dalla pelle nera, dalle braccia indistruttibili e dalla dignità sotto i tacchi. Non sono più acute supposizioni: lo testimoniano le centinaia di schede compilate in questi mesi dagli sportelli del movimento antirazzista.
Provenienti per la stragrande maggioranza dall’Africa sub sahariana, in fuga da guerre e persecuzioni, hanno subito estorsioni e arresti illegali in Libia prima di sbarcare in Italia. Sono arrivati tra il 2007 e il 2009, prima che i controversi accordi col regime di Gheddafi chiudessero la via del deserto con la pratica illegale dei respingimenti di massa. Richiedono protezione internazionale, tutela e accoglienza sistematicamente elusi dal governo italiano e vivono in un limbo dal quale è difficile uscire, fatto di clandestinità e discriminazione. Non sono migranti economici ma richiedenti asilo, soggetti  vulnerabili che non potranno mai partecipare ai provvedimenti di emersione previsti per legge. A volte irregolari ma ugualmente inespellibili perché provenienti da paesi comunque considerati a rischio. Per questo lavorano nelle campagne, schiavi di un sistema che li rende invisibili e ricattabili. Prigionieri dei paradossi della legge Bossi-Fini, del Pacchetto Sicurezza e più in generale delle trasversali politiche repressive in tema di immigrazione.
In autunno, le arance sono tornate sugli alberi e i migranti nei campi della Piana. L’esigenza di fare emergere le contraddizioni del sistema, per garantire diritti, cittadinanza e dignità, ha portato alla nascita di RADICI: una campagna di monitoraggio, partita lo scorso novembre proprio dal nodo di Rosarno, che si è trasformata in breve in una nuova vertenza a tutela dei migranti. Una mobilitazione che parte dalla Calabria, ma che si configura come una vertenza meridionale.
“RADICI” perché da circa tre anni nelle campagne del Sud questi migranti lavorano in agricoltura - garantendo  d’estate la raccolta dei  pomodori e d’inverno degli agrumi - in un contesto di grave sfruttamento, diritti negati e ricattabilità. Seguendo i ritmi della terra, si muovono rincorrendo la speranza di un ingaggio sottopagato: si insediano tra Foggia e il Vulture tra luglio e ottobre, prima di proseguire per la Piana di Gioia Tauro-Rosarno dove sono impegnati fino a marzo per gli agrumi. Ovunque lo stesso scenario: caporalato, lavoro nero, grave emergenza abitativa, pessime condizioni igienico-sanitarie.
“RADICI” perché il riscatto di questi lavoratori invisibili,  in ideale collegamento con le battaglie di giustizia sociale che sono patrimonio culturale e politico del Sud Italia, non può prescindere dalla conquista dei diritti di cittadinanza con priorità assoluta per il diritto a soggiornare sul territorio italiano. In assenza di quest’ultimo, infatti, qualunque idea di accoglienza e assistenza, come indicato dagli stessi migranti, risulterebbe limitata e miope.


NELLE CAMPAGNE DEGLI INVISIBILI
le presenze – gli insediamenti – gli affitti – i progetti di accoglienza


Della “Rognetta”, nel cuore di Rosarno, è rimasto solo il perimetro svuotato dalle ruspe. L’ex “Cartiera”, invece, è ancora in piedi sulla strada per San Ferdinando, enorme ma vuota, resa inaccessibile da porte e finestre murate. Alla “Collina” di Rizziconi sono visibili resti di materassi e brande, ma attorno ai due grandi casolari dove, su un terreno confiscato alla ‘ndrangheta, vivevano più di 300 persone oggi non c’è anima viva. Anche l’Opera Sila, ex fabbrica occupata solo l’anno passato, è inaccessibile. Tollerati da tutti e rivelati al mondo dalla rivolta del 7 gennaio 2010, gli storici ghetti della Piana di Gioia Tauro-Rosarno in cui migliaia di braccianti africani hanno soggiornato per anni in condizioni igienico-sanitarie spaventose, affrontando la stagione della raccolta agrumicola senz’acqua, servizi igienici ed elettricità, non ci sono più. Nessun corposo assembramento, nessun grande Hotel Africa. A novembre 2010 la geografia della presenza africana sul territorio presenta nuovi contorni, profondamente condizionati dai fatti di Rosarno. La “tolleranza zero” scattata nei mesi successivi nei confronti dei vecchi ghetti e di nuovi, possibili concentramenti ha ridisegnato la natura degli insediamenti dei braccianti africani, influenzando, insieme con la pesante crisi del settore agrumicolo, anche la dimensione del fenomeno. Tutto è cambiato, ma nulla è cambiato, però. Meno numerosi della stagione precedente – le circa 600-700 presenze registrate a novembre, in concomitanza con la raccolta delle clementine, sono lievitate secondo una nostra stima fino agli oltre 1.000 braccianti africani al momento presenti nella Piana, al netto di un significativo turn-over – gli africani sono tornati in cerca di un ingaggio, nella speranza che la stagione delle arance di Rosarno vada meglio di quella, fallimentare, dei pomodori a Foggia e Palazzo San Gervasio. Sono tornati, ma sono invisibili. Ricacciati dalla paura dei controlli delle forze dell’ordine e dall’assenza di un piano di accoglienza in casolari malmessi, vecchie case patronali, ruderi di campagna persi in mezzo agli aranceti. Vivono in quindici, venti braccianti per insediamento. E questa è forse l’unica differenza rispetto allo scenario precedente. I tetti aperti sul cielo, la luce offerta dalle candele o da vecchi generatori, l’acqua riscaldata sul fuoco, le coperte, poche e mai abbastanza pesanti, le latrine a cielo aperto sono gli stessi immortalati in tanti reportage fotografici precedenti la rivolta.  
Come gli anni scorsi sono due le macroaree in cui gravità la comunità africana: quella tra Rosarno, San Ferdinando e Gioia Tauro, e quella tra Rizziconi e Taurianova. Alla prima area appartengono gli insediamenti lungo la statale per Nicotera, attorno a Candidoni e Laureana di Borrello, la zona del Bosco, le case del borgo di Rosarno, i mini-ghetti a poche centinaia di metri dal centro abitato di Rosarno e San Ferdinando. Nella seconda area ricadono i casolari nei campi verso Taurianova, gli insediamenti a Rizziconi in contrada Marotta, contrada Spina, le case di Drosi.
-         Nella vecchia casa alla periferia di Rosarno, lungo la strada per Nicotera, si addormentano senza sapere se la lunga crepa lungo il muro della facciata si spalancherà di notte. Ma si consolano pensando che c’è chi sta peggio, solo poche decine di metri più in là, in un rudere con il primo piano mezzo dirupato e le stanze occupate al piano terra con il tetto che è un colabrodo. “Quando piove vado a vedere se i miei amici stanno ancora bene o se è crollato tutto, vivere in questo modo è impossibile. E’ peggio di qualunque immaginazione”, racconta in un italiano con accenti nordici Gabe che ha il permesso di soggiorno, faceva l’operaio specializzato a Brescia e oggi paga la crisi economica raccogliendo arance nella Piana. Di carabinieri e polizia, nello spiazzio dove razzolano galline e i cani si trascinano tra sedie sfondate e calderoni per riscaldare l’acqua portata con i bidoni, non hanno paura. “Siamo tutti regolari. Sono venuti qualche volta. Hanno guardato le carte e sono andati via”. Lasciandoli alla crepa sulla facciata.

-         Per arrivare ai casolari abbandonati lungo la strada per Laureana di Borrello bisogna attraversare a piedi uliveti ed aranceti. Una fontana, a poco meno di un chilometro di distanza, fornisce l’acqua. I cartoni alle finestre e il braciere per cucinare le uniche forme di riscaldamento. Il numero degli occupanti varia di settimana in settimana; ci sono gli arrivi, ci sono le partenze, ci sono pure i caduti. Marcus aveva 40 anni, veniva dal Gambia, era stato a Foggia a raccogliere pomodori e ad ottobre era arrivato in Calabria per mettere in fila un po’ di giornate, dall’alba al tramonto, a 25 euro al dì. Se ne è andato a metà novembre in un letto dell’ospedale di Lamezia Terme per le complicazioni legate ad una polmonite bilaterale. Era magro, aveva un problema al cuore ed il suo ultimo pensiero, soffiato con un filo di voce ai volontari che lo hanno assistito fino alla fine, è stato per “i soldi del patrone” da mandare a moglie e figli rimasti in Africa.
I più fortunati – tutti o quasi con in tasca un documento che li pone al riparo dagli sgomberi – hanno trovato un tetto in affitto, a 50-60 euro al posto letto ma in condizioni, in molti casi, solo leggermente migliori di quelle offerte dalle catapecchie abbandonate. Può capitare che nelle campagne della Piana, per esempio, ci sia chi paghi per dormire dentro un vecchio pollaio, appositamente riconvertito per gli africani e con una lampadina appesa al soffitto come segnale di benevolenza del padrone di “casa”. Di certo l’aumento dei controlli, unito al rischio di pesanti sanzioni per i proprietari che offrano ospitalità a cittadini irregolari, ha influenzato, soprattutto a Rosarno, il mercato degli affitti. Con i ghetti off limits e i migranti in cerca di un tetto, le case disponibili non sono aumentate in proporzione, pur essendoci abitazioni vuote. Quello che manca è la mediazione sul territorio. Risultato: l’offerta è ampiamente insufficiente rispetto ad una domanda che nessuna istituzione, ad un anno dalla rivolta di Rosarno, si è ancora una volta e incredibilmente preparata ad accogliere. Una “emergenza” che fa emergere tra l’altro un importante fattore: le politiche sull’immigrazione o sono globali, e affrontano la questione a 360 gradi, o sono inutili.
È invece lunga e corposa la storia dei progetti annunciati e mai partiti. Un solo esempio per tutti: nel gennaio 2007 in un clima di solenne ufficialità fu sottoscritto presso la prefettura di Reggio Calabria un protocollo d’intesa per trasformare l’ex “Cartiera” in un centro di accoglienza e aggregazione sociale. Il progetto naufragò pochi mesi dopo, insieme con l’appalto pubblico per “riqualificare” la zona circostante e collocarvi container per ospitare gli stagionali. Il ricorso della ditta arrivata seconda bloccò tutto e nella “Cartiera” gli africani continuarono a dormire nei cartoni fino all’estate del 2009. Ad ottobre scorso, invece, è stato aperto il cantiere al cementificio Beton Medma di Rosarno, dismesso e confiscato al clan Bellocco: il progetto prevede la costruzione di un edificio da 60 posti letto con uno spazio dedicato all’intrattenimento, uno al supporto scolastico dei bambini, uno sportello sociale ed uno per la formazione professionale, per un costo di 3 milioni di euro stanziati dallo Stato e 16 milioni di fondi europei. Sarà difficile coglierne i frutti tanto presto.  


NUMERI E TENDENZE
presenze, lavoro nero, rapporti interetnici


Il monitoraggio della reteRADICI si basa su un censimento e un lavoro di sportello, portato avanti con sopralluoghi nei casolari e nelle abitazioni dei migranti africani, con le successive interviste caso per caso, alla scoperta delle condizioni giuridiche, abitative, di lavoro, sociali e ambientali (relazioni con la popolazione locale, con le istituzioni e le agenzie territoriali, con la propria comunità). Ogni africano una scheda, ogni scheda una storia. Un metodo funzionale a garantire la tutela dei migranti e a imbastire una vertenza, ma non ad assicurare l’imparzialità statistica dei dati, che resta opinabile. Ma i dati che abbiamo raccolto parlano chiaro, nonostante tutto.
Oltre cento storie attualmente schedate, altrettante censite. Più di 200 africani presi in carico dallo sportello di reteRADICI e altrettanti incontrati lungo il cammino. I numeri cominciano ad essere significativi: per ogni africano ascoltato, ce ne sono due che vivono accanto a lui e hanno una situazione omogenea. Stessa area di provenienza, stesse condizioni di vita e di lavoro. Ecco che le stime che emergono dal monitoraggio, pur con tutte le avvertenze del caso, esprimono tendenze reali, riferibili direttamente ad almeno la metà della comunità africana della Piana. Ultima annotazione: la natura dell’intervento ci ha portati gioco-forza a sovrastimare il peso dei migranti irregolari (una piccola parte) e di quelli che vivono in una condizione di limbo giuridico, rispetto alla comunità dei “privilegiati” che godono del permesso di soggiornare in Italia.
Rispetto agli anni precedenti, ciò che colpisce a una prima analisi quantitativa dei dati emersi nel corso del monitoraggio di reteRADICI è la stima delle presenze: è stato sfondato il tetto dei 1.000 (un terzo nell’area di Rizziconi, i restanti attorno a Rosarno) braccianti africani domiciliati sul territorio, con un significativo abbandono e una rapida rotazione che fa lievitare la cifra di alcune centinaia. Un dato significativo perché siamo a meno della metà di presenze rispetto agli ultimi anni e in particolare rispetto all’anno passato, l’anno della rivolta (oltre 2.500), con un regresso ai livelli di fine anni ‘90. Segno che la mancanza di lavoro, la paura di nuove persecuzioni, i controlli divenuti di colpo intensi dopo anni di laissez faire, hanno spinto parecchi migranti africani a svernare in altri lidi, solitamente meno agevoli.
Sono al 95% richiedenti asilo. Ma oltre la metà dei migranti domiciliati sul territorio vive in una condizione di irregolarità, è prossimo a entrarci o vive in un limbo giuridico: che consente di soggiornare sul territorio ma non di lavorare. Dati che si riflettono sulla legalità del mercato del lavoro.
Mali, Costa d’Avorio, Guinea, Burkina, Ghana, Senegal le nazionalità maggiormente rappresentate, una babele di lingue che vanno dal francese (50%) al bambara (30%), dall’inglese (10%) alle altre lingue africane. L’80% dei migranti parla due o più lingue, anche se la percentuale di analfabetismo è elevata e il livello di scolarizzazione basso.
Nonostante la presenza massiccia e “insolita” sulla Piana dell’Ispettorato del Lavoro, le indicazioni emerse durante le interviste ci indicano che 2/3 dei braccianti africani transitati dalla Piana hanno lavorato o lavorano a nero. In fondo è semplice eludere le visite (un migliaio durante l’autunno) che avvengono dal lunedì al venerdì a orari noti. Ma non va sottovalutato l’avvio della “normalizzazione”: per la prima volta parecchi lavoratori migranti hanno un contratto. Stime esterne indicano in 800 i contratti posti in essere con lavoratori extracomunitari denunciati al Centro per l’Impiego. Una cifra al lordo dei rinnovi e degli impieghi in altre attività: quel che resta è il terzo mancante, gli africani impiegati regolarmente. Comunque è un passo in avanti rispetto alla barbarie contrattuale degli anni scorsi. Basta ricordare, inoltre, che la scorsa stagione a essere iscritti nelle liste Inps sono stati solo gli italiani (1.600 a Rosarno, sul totale di 2.500 nella Piana). Nei campi non si è visto nessuno se non gli africani. E i conti tornano.
Le paghe restano sui livelli degli anni passati: 20-25 euro per 8-10 ore in media, con la salutare tendenza ad abolire il cottimo (1 euro a cassetta). Si lavora saltuariamente: in media 2-3 giorni a settimana, segno della crisi del mercato agrumicolo. Resta sempre in piedi la pratica del caporalato (un caporale arriva a prendere anche 10 euro al giorno per ogni bracciante). Al lavoro ci si va a piedi, in bici, ma molto più spesso in auto o furgone insieme a caporali o padroni, che scelgono le braccia da assoldare al mercato di contrada Spina a Rizziconi o a quello sulla Nazionale di Rosarno.
Un ultimo dato lavorativo estremamente significativo: l’80% dei migranti ha lavorato sempre e solo nei campi del Sud dal momento dell’arrivo in Italia. Una semi-schiavitù imposta dalle dure condizioni del mercato del lavoro ma anche e soprattutto dalla legislazione restrittiva e repressiva in tema di immigrazione.
Il 90% africani intervistati ha già soggiornato sulla Piana di Gioia Tauro-Rosarno negli anni passati, segno di una tendenza: chi è tornato, o non è mai andato via, ha la certezza di poter attivare contatti sul territorio, un’alta probabilità di ingaggio almeno saltuario, i rapporti necessari per trovare una sistemazione. Uno zoccolo duro di braccianti di lungo corso, che hanno vissuto le rivolte del dicembre 2008 e gennaio 2010.
A smentire la presunta natura violenta degli africani, se ce ne fosse bisogno, sono le denunce ufficiali e ufficiose: nessuna segnalazione di stranieri facinorosi, alcuni inquietanti episodi di violenza ai danni dei migranti di pelle nera (le famigerate sportellate da auto in corsa, pestaggi a bastonate, lanci di oggetti, insulti). Episodi circoscritti, ma che raccontano di una situazione ancora tesa, tenuta a freno dai controlli aumentati e soprattutto dalla vigilanza dei media. Un dato, quest’ultimo, sottolineato con forza durante le interviste: c’è la percezione del miglioramento dei rapporti con la comunità italiana, ma da parte degli africani la paura resta.
Ultimi dati quelli riferiti alle condizioni abitative, che sono in media o indecenti o precarie. Tranne poche eccezioni, i migranti africani vivono in insediamenti o case in un numero inferiore alle 20 unità. Almeno la metà paga un affitto, 50 euro a testa la media.


“PRIMA IL TETTO, POI IL CIBO”
il modello Drosi


A Drosi, una grossa frazione di Rizziconi, la Caritas fornisce ogni martedì sera, e da anni, un servizio di mensa rivolto ai migranti. Quest’anno, giurano, la qualità del menu è pure migliorata e si dovrebbe riuscire ad aggiungere una seconda giornata alla settimana. Non è l’unica mensa attiva: anche a Maropati la cooperativa Il Cenacolo, legata alla Caritas e animata da Bartolo Mercuri, si occupa di sfamare i migranti di tutti i colori. C’è anche un pullmino che serve da navetta.
A Drosi, però, i volontari hanno capito da tempo che il tetto viene prima del cibo e si sono mossi di conseguenza, con un’azione semplice e a costo zero. «Ci siamo proposti come garanti nei confronti dei proprietari. È come se gli appartamenti li prendessimo in affitto noi e siamo noi a controllare che tutto proceda per il meglio», spiega don Nino Larocca, che con i trenta animatori della locale parrocchia di San Martino ha convinto otto cittadini del piccolo centro della Piana a mettere a disposizione dei lavoratori africani altrettante case. Una mediazione abitativa, e sociale, che ha dato un tetto dignitoso a circa cinquanta migranti – tutti regolari e tutti chiamati a pagare puntualmente un affitto di 50 euro al mese – e ha sancito l’efficacia di un modello di accoglienza partito dal basso, a costo zero, e fondato sul protagonismo degli attori del territorio. In questo caso del mondo del volontariato cattolico.
-         “Possiamo anche dargli da mangiare ma se non hanno un posto dove sedersi attorno ad un tavolo che vita è? Prima viene la casa, poi il cibo”. Francesco Galluccio, per tutti gli africani della zona semplicemente “Ciccio”, vede le cose in modo semplice e netto. Il “sistema” Drosi per lui è solo frutto di buonsenso e buona volontà. Gli stessi elementi che, insieme con gli altri animatori della Caritas, lo hanno spinto per anni sulla “Collina”, con il suo carico di viveri e vestiti, e oggi lo portano lungo le stradine di campagna, perennemente in moto tra un casolare e l’altro di Rizziconi. “Le case di Drosi sono ancora poche, ma noi non abbandoniamo nessuno”, garantisce tenendo in mano l’agenda in cui sono segnate le richieste raccolte nel suo quotidiano giro: una coperta per Mamadou, un materasso per Ibrahim, un giaccone per Aziz, una visita dal dentista per Oumar.  

Le realtà che fanno accoglienza sono tante. Dopo i fatti di Rosarno, è nata la Tenda di Abramo: un’esperienza nata a Polistena dalla volontà di fare la propria parte: un appartamento da utilizzare, 4 africani feriti negli scontri dello scorso gennaio, un riferimento come Walter Tripodi. Per gli africani ospiti c’è anche la possibilità di seguire un percorso di inserimento lavorativo con la Valle del Marro, la cooperativa di Libera Terra nata sui beni confiscati alla ‘ndrangheta, animata da don Pino Demasi di Libera Piana.
Da segnalare anche l’importante funzione svolta da agenzie di mediazione sul territorio, soprattutto sul fronte sanitario ed educativo, come quelle coinvolte nel Progetto Assi: Provincia e comuni del comprensorio, l’Asp, associazioni come la Omnia di Rosarno.
Quello della Caritas di Drosi è però un modello di mediazione sociale perché facilmente esportabile, soprattutto in una realtà fatta di spopolamento, di interi paesi a rischio di estinzione, di bilanci comunali disastrati ed enti locali al collasso. Il modello Drosi ci insegna questo: quando c’è la volontà sindaci e associazionismo possono risolvere il problema in tempi rapidi.


AGRICOLTURA, UN NUOVO CORSO?
 controlli – lavoro nero – stagionali dell’est


Un compenso tra i 10 e i 25 euro (un euro a cassetta per la raccolta delle clementine e 50 centesimi per le arance) per una giornata di lavoro lunga anche 12 ore. Le carte dell’inchiesta “Migrantes”, scattata nell’aprile 2010 e coordinata dalla procura di Palmi, hanno fissato in termini da codice penale ciò che dossier, interrogazioni parlamentari e reportage giornalistici segnalavano da tempo: le condizioni di sfruttamento, i meccanismi del caporalato, la totale assenza di garanzie che fino alla rivolta di Rosarno hanno contraddistinto per anni, e in larga parte, l’impiego dei braccianti africani nella raccolta degli agrumi sulla Piana di Gioia Tauro. Resa possibile dalla denuncia di 15 lavoratori stagionali (8 si sono visti riconoscere il permesso di soggiorno per motivi di giustizia), l’“operazione verità” condotta dagli inquirenti ha con ogni probabilità rappresentato, ancor più dei fatti del gennaio 2010, un autentico spartiacque per l’imprenditoria agricola locale, trascinata di fronte alle proprie responsabilità insieme con Inps, Inail ed Ispettorato del Lavoro: l’intero sistema di controllati e controllori, nelle campagne della Piana, è stato obbligato ad un cambio di passo. E i segnali sono arrivati, ben evidenti, con l’avvio della nuova stagione della raccolta agrumicola: accertamenti, ispezioni, incremento di registrazioni ai Centri per l’Impiego hanno disegnato a partire dal novembre 2010 uno scenario di “normalizzazione” che ha apparentemente equiparato, per la prima volta, la Piana di Gioia Tauro al resto d’Italia. Per parlare di autentico nuovo corso però bisognerà attendere la pubblicazione, nel prossimo mese di maggio, degli elenchi nominativi dei braccianti agricoli, con le giornate di lavoro effettivamente riconosciute agli stagionali africani contrattualizzati. Di certo, al momento, le nostre interviste ci dicono che nonostante l’apparente sterzata legalitaria nelle campagne si continua a lavorare in nero. E non potrebbe essere diversamente: una larga parte dei lavoratori stagionali africani presenti sul territorio, infatti, è sospesa in un limbo giuridico che garantisce in molti casi il diritto a permanere sul suolo italiano, ma non quello ad un regolare contratto di lavoro. A Rosarno come a Foggia, a Cassibile come a Palazzo San Gervasio. E allora i racconti ripetono, monotoni, il consueto copione: la paga giornaliera da 25 euro, gli espedienti, universalmente noti, per aggirare i controlli, l’uscita all’alba e l’attesa di un ingaggio, in piazza o lungo le strade, con la consapevolezza, però, che le cose, nella Piana di Gioia Tauro-Rosarno, si sono fatte più difficili. Perché il sistema è in crisi e richiede, per risollevarsi, interventi strutturali e perché, di fronte al timore di sanzioni e confische, molti imprenditori si sono rivolti quest’anno ai lavoratori dell’est europeo, cittadini bulgari e rumeni, che tengono al riparo i “padroni” dal reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. 
-         “Riuscire a fare anche una sola giornata alla settimana è diventato difficile, gli italiani quest’anno hanno paura se sei senza documenti”, racconta Jabby, 29 anni, che in Guinea ha lasciato una moglie e due figli piccoli e attende da più di sei mesi di essere convocato dalla Commissione per il riconoscimento della Protezione internazionale. Con il foglio di carta ordinatamente ripiegato nella tasca che lo certifica richiedente asilo Jabby non teme i controlli della polizia, può firmare contratti d’affitto ma non di lavoro. “E come vivo? Come aiuto la mia famiglia?”, si chiede non rassegnato, spalancando le braccia. In un     angolo delle due stanze spoglie che divide con quattro amici sono gettati il berretto di lana e gli stivali di plastica con cui, l’indomani all’alba, ritenterà la sorte sulla Nazionale, in attesa di un caporale o un padrone che gli faccia la grazia di farlo lavorare.


PER METTERE RADICI
vertenza sui permessi di soggiorno – protagonismo degli enti locali


Rosarno non è solo un problema di Rosarno. I suoi contorni, i suoi nodi più profondi travalicano l’ambito locale, interrogano il Paese e il governo italiano. La Piana di Gioia Tauro-Rosarno, infatti, è un pezzo di quell’ampio scenario di sfruttamento e diritti negati in cui, da circa tre anni, si muove, compatto ed ordinato, un esercito di migranti africani invisibili impiegati nelle campagne dell’intero Sud Italia. Il lavoro nero, la grave emergenza abitativa, le pessime condizioni igienico-sanitarie registrate a partire da novembre nel corso del monitoraggio di reteRADICI non cambiano se alle arance e alle clementine calabresi si sostituiscono i pomodori pugliesi o campani. I ritmi delle stagioni scandiscono partenze, arrivi, speranze di ingaggi, bagagli frettolosamente ammassati per sbarcare in estate tra Foggia e il Vulture e spostarsi in inverno nella Piana reggina. Senza pause, senza alternative. Lavorano la terra ma, in alcuni casi, sono pittori, sarti, elettricisti, commercianti. In fuga da guerre e persecuzioni, vessati ed arrestati in Libia, sbarcati in Italia tra il 2007 e il 2009 (prima degli accordi con Gheddafi), hanno perso per strada sogni, hanno messo da parte competenze. Imbrigliati nella palude legislativa italiana, richiedono la protezione internazionale e sono ricacciati, per tutta risposta, in un limbo dal quale la legislazione italiana non prevede vie d’uscita, fatto di clandestinità, discriminazione, ricatti. La soluzione del problema Rosarno passa necessariamente dal riscatto di questi lavoratori. Il riconoscimento dei loro diritti di cittadinanza da una vertenza meridionale per il diritto di soggiorno che si colleghi idealmente alle gloriose battaglie sociali che il territorio della Piana di Gioia Tauro ha saputo esprimere.
Ma Rosarno è anche, certamente, un problema di Rosarno e come tale pretende risposte da tutti gli attori del territorio, chiamati ad un protagonismo fattivo e costante sul piano dell’accoglienza. Gli esempi esistono. Nella Piana di Gioia Tauro ci sono piccole comunità, nate dal basso e cresciute con gli anni lontano dai riflettori, che vanno incontro alle esigenze primarie dei lavoratori migranti, e che andrebbero meglio valorizzate. Modelli, come quello offerto dall’attività di mediazione abitativa e sociale della Caritas di Drosi, che rappresentano buone prassi da imitare per tutte le amministrazioni comunali, un insegnamento per la Regione Calabria e un monito per le istituzioni e la politica.  Gli otto appartamenti affittati a Drosi raccontano che spesso, in barba ai più roboanti progetti milionari e senza attendere inutilmente o sprecare colpevolmente fondi pubblici, bastano azioni semplici e a costo zero, assolutamente alla portata anche dei più disastrati enti locali della Piana di Gioia Tauro-Rosarno. Basta volerlo e rimboccarsi le maniche.